sabato 7 ottobre 2017

XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 8 ottobre 2017. Ambientale, commento e lectio.

Nella XXVII Domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci presenta il Vangelo (Mt 21,33-43) della parabola del padrone della vigna e dei vignaioli.
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 21,33-43
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un'altra parabola: c'era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto per mio figlio!. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: Costui è l'erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d'angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».
Cristo ha avuto cura di noi, sua vigna, innaffiandoci con la sua Parola, potandoci con la correzione, sanando le nostre radici con la misericordiosa effusione del suo sangue datore di vita. Così Gesù di Nazareth ha rivelato lo zelo amoroso del Padre per noi. Lui è la pietra angolare che sostiene persone e famiglie, e rende autentica e duratura qualsiasi relazione d’amore. Ciascuna epoca necessita di vignaioli, pieni di Spirito Santo, che si prendano cura di far conoscere all’umanità l’amore divino. Ciò implica saper soffrire per il bene altrui, lasciarsi crocifiggere dalle debolezze e dai bisogni del prossimo, dalle persone ostili e moleste, come il Salvatore ci ha insegnato. Noi siamo operai della vigna e rischiamo non di rado di trascurarla, perché questa dedizione costa fatica e impegno, in altre parole richiede amore vero senza sentimentalismo. Questa vigna sono i familiari, i vicini di casa, i parenti, i colleghi di lavoro, gli amici che non a caso Dio ci ha fatto conoscere. Così come il Signore ha fatto con noi, anch’essi si aspettano da noi attenzione, affetto, perdono, consiglio, allegria, pazienza, generosità e misericordia. Se rimaniamo uniti al nostro Maestro nella Chiesa, Egli compirà in noi tali prodigi concedendoci quest’amore soprannaturale perché “Nulla è impossibile a Dio!”. Diversamente la vigna sarà affidata ad altri… (Sanfilippo).
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COMMENTO

La parabola di questa domenica illumina la nostra vita. Un “padrone”, immagine di Dio, ha “piantato” per noi una “vigna” nella storia come un anticipo del Paradiso che abbiamo perduto, anch’esso “piantato” da Dio per amore dell’uomo. Nell’Antico Testamento, infatti, la “vigna” indicava Israele, il Popolo scelto per annunciare che Dio non si era dimenticato dell’uomo.
Sulla sua radice è cresciuta la Chiesa, la “vigna” nella quale ciascuno di noi è chiamato, generato, custodito e formato per ritornare ad essere l’opera molto buona di Dio; in essa sono riportate alla luce l’immagine e la somiglianza di Dio, per dare i “suoi” frutti nella nostra vita.
Sono le opere del suo amore, non si ottengono con lo sforzo. C’è un cammino da fare, fatto di ascolto e obbedienza. Solo chi, nella “vigna”, è cresciuto nella fede ed è diventato figlio di Dio può riconsegnarGli i “frutti” che la sua Grazia ha generato e fatto maturare in lui.
Per questo nella Chiesa i cristiani crescono alla Luce della Parola di Dio che, come una “siepe” (immagine della Torah) protegge il cammino e indica le orme della volontà di Dio; si nutrono del succo vivificante spremuto nel “torchio”, l’altare della Croce sulla quale il Signore ha pigiato da solo per fare giustizia di ogni nemico dell’anima. E nella “torre”, deposito, luogo di ricovero dei vignaioli e immagine biblica del Tempio, celebrano in comunione e gioia le liturgie nelle quali assaporano le primizie del Cielo.
I “servi” del Padrone non sono sempre nella “vigna”, la visitano solo nei tempi favorevoli alla raccolta dei frutti. La Chiesa non lava il cervello, non ripete slogan come le ideologie mondane. Ci lascia liberi, sempre; è una madre che ci ama sino in fondo, correndo il rischio di vederci usare la libertà come i “vignaioli”, contro Dio e contro noi stessi.
Non siamo teleguidati da un joystick, perché la vigna non è una console di videogiochi. Infatti prima o poi i “servi” arrivano, in carne, ossa, e parola. Forse si vestono con la crisi della moglie, o con i macelli combinati dal figlio, con le debolezze degli altri che implorano da noi un frutto d’amore per scampare alla morte. Di certo arrivano attraverso la liturgia di questa domenica, e ci chiedono i frutti, come facevano i pastori e i catechisti con i catecumeni, per saggiarne i progressi sul cammino per diventare cristiani.
Se li abbiamo, allora “non ci stiamo angustiando”, anche se abbiamo un mucchio di problemi, ma viviamo “con il cuore e i pensieri custoditi nella pace di Dio che sorpassa ogni intelligenza”. Se invece non siamo sereni, se stiamo mormorando insoddisfatti, significa che non abbiamo frutti.
Soffriamo perché siamo nel peccato, che in ebraico si dice “chet”, e significa “mancare il bersaglio”. Chi non dà i frutti sta fallendo, ovvero sta peccando, qualsiasi cosa pensi, dica o faccia, come i “vignaioli” della Parabola. Il Padrone aveva preparato tutto, dovevano solo custodire e coltivare la vigna per consegnare i frutti a suo tempo. Ma volevano di più.
Non gli bastava essere lì, amministratori dei beni del Padrone. Il veleno dell’orgoglio li aveva accecati, come è accaduto a noi. Non ci basta essere nella Chiesa, noi che dovremmo essere all’inferno per tutto il male che abbiamo pensato e compiuto. Non ci basta essere un riverbero dell’amore di Dio nella famiglia che ci ha donato e salvato mille volte; non ci basta esserlo per la moglie, il marito, i figli, al lavoro, nel ministero.
Come Adamo ed Eva vogliamo quel “frutto” lì, che ci farebbe diventare come Dio. Io “vignaiolo”? Ma per carità… Mica la mia vita sarà sempre obbedire, e consegnare me stesso e i frutti del mio lavoro. Io voglio essere l’erede, cioè il Padrone della Vigna.
Pensi che sia esagerato? Quindi a te non interessa il potere; a casa o in ufficio, non ti curi che ti vengano riconosciuti i tuoi diritti, l’onore, il rispetto, il prestigio, la stima… Illuso. Sì che lo vuoi, come tutti. E per questo ti svegli e fai ogni cosa.
Per diventare come Dio vai perfino a messa, anche questa domenica; probabilmente ci sei andato da sempre con il cuore doppio dei “vignaioli”. Lo stesso dei “sacerdoti e degli anziani del popolo”.
Sapevano a memoria la Scrittura, celebravano le liturgie alla perfezione, ma non conoscevano il Dio che si illudevano di servire.
Il demonio aveva rubato dal loro cuore il suo amore, la storia e i miracoli, la gratuità dell’elezione. Il compimento era lì, offerto gratuitamente, ma non potevano credere; il “frutto” che il Padrone attendeva era proprio Gesù, da accogliere come il Messia, e invece lo volevano uccidere.
Ma il Padrone conosceva quel cuore indurito, era quello del suo Popolo, che aveva amato senza misura, inviando tante volte i profeti a cercare invano di ammorbidirlo. Così era giunta la pienezza dei tempi, il “kairos” nel quale Israele, senza merito, avrebbe potuto offrire il “frutto” preparato da tutta la sua storia.
Lo avrebbe dato alla luce una Vergine, senza conoscere uomo. Era, infatti, un frutto della Grazia e non dello sforzo, del moralismo e del legalismo; un dono di Dio nel seno della Figlia di Sion, la “vigna” illibata e feconda che Dio aveva preparato da sempre per salvare ogni uomo.
Ma i sacerdoti e gli anziani erano così pieni di se stessi e della loro pretesa giustizia, da sostituirsi al Messia; certo a parole erano lì ad attenderlo, ma lo avevano “scartato” come un usurpatore, e nel cuore lo avevano già ucciso, nell’illusione di appropriarsi con le proprie forze dell’eredità, del Regno dei Cieli. Per questo la parabola era dolorosamente profetica. Sarebbe avvenuto proprio così: avrebbero “cacciato e ucciso fuori dalla Vigna” il Messia.
Ma il Padre, come nella Parabola, sarebbe rimasto vivo, e loro non sarebbero diventati gli eredi, anzi. Avrebbero perduto anche la “vigna”, data invece a un Popolo Nuovo, il resto di Israele che avrebbe accolto umilmente Gesù e il Vangelo. I piccoli, i poveri, i maledetti che non conoscevano la Legge come i capi.
In loro, “scartati” dal Popolo come i “costruttori scartavano le pietre” fallate e inadatte alla costruzione del Tempio, il Signore diviene la “Pietra angolare” del Nuovo Tempio, il suo corpo risorto e vivo nella storia. In loro si rivela la vittoria della pazienza infinita di Dio su ogni criterio religioso o mondano di giustizia.
Chi poteva pensare che quell’Uomo ucciso sulla Croce fuori da Gerusalemme, come nel giorno di Yom Kippur si gettava da un dirupo nel deserto il capro espiatorio, era il Messia che avrebbe salvato ogni peccatore?
La tradizione ebraica vede in Yom Kippur il giorno in cui Dio ha accettato il pentimento del Popolo dopo aver rigettato Dio fabbricandosi un vitello d’oro. E per questo consegna di nuovo a Mosè le tavole della Legge. “La pietra” sulla quale Dio aveva scritto per Israele il cammino della vita, “scartata” dal peccato, era ora riconsegnata come fondamento di Israele.
Ma anche questo era profezia di un nuovo e definitivo compimento. Di quando cioè, la Legge scritta sulla “pietra” e scartata di nuovo da un Popolo che non ha potuto compierla, sarebbe stata impressa nel cuore di un resto che le sarebbe stato fedele.
Oggi ci è offerta ancora la possibilità di far parte di questo “resto”. Basta accettare d’essere senza frutti, come Pietro sulle sponde del Lago di Galilea; riconoscere che non abbiamo obbedito alla Parola e all’annuncio della Chiesa e dei suoi ministri. Anzi, li abbiamo “bastonati” con i giudizi, “lapidati” con le parole usate per giustificarci, “uccisi” nel nostro cuore per non ascoltarli.
Ma nella Chiesa può avvenire l’impossibile. Che cioè “il regno di Dio sia strappato” al nostro uomo vecchio per “essere consegnato” all’uomo nuovo, povero per accogliere con stupore e gratitudine il perdono, umile per obbedire alla Chiesa. Santo perché unito a Cristo, il frutto che siamo chiamati ad offrire al mondo. (Japicca)

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LECTIO DIVINA
(A CURA DI MONS. FRANCESCO FOLLO*)

1) Il Dio fedele.
La prima lettura, presa da Isaia 5,1-7 [1], è un capolavoro e introduce la parabola di Gesù che anche in questa domenica ci parla della vigna e ci dice che la punizione di Dio è per convertire non per distruggere.
Questo profeta dell’Antico Testamento si serve dell’allegoria della vigna per descrivere la storia del popolo di Israele, quando tradisce l’amore di Dio, che la scelto come popolo eletto scelto per annunciare che Dio non si era dimenticato dell’uomo e per dare carne al Figlio di Dio.
Ma questa una storia di infedeltà – dice Isaia –  non può continuare all’infinito. La pazienza di Dio ha un limite e ci sarà un giudizio (5,3). Dio si aspettava uva pregiata, e invece ebbe uva scadente (5,2). Fuori metafora: si aspettava giustizia ed ecco oppressione, si aspettava rettitudine ed ecco la disonestà (5,7). A questo punto non resta che il castigo: la vigna cadrà in rovina, non sarà più coltivata e vi cresceranno rovi e pruni. Ma il castigo di Dio non è mai per sempre.
Le minacce di Dio sono per convertire, non per distruggere.
E ciò appare evidente nella parabola raccontata oggi da Cristo., che prende spunto dal canto di Isaia sulla vigna precisando che il peccato dei vignaioli non consiste semplicemente in una dura, ma generica disobbedienza a Dio. Il loro peccato sta nel fatto che i profeti e persino il Messia, il Figlio di Dio, sono uccisi.
Inoltre, mentre nel canto  di Isaia il padrone si aspettava uva pregiata e invece ha trovato uva scadente, nella parabola non è anzitutto questione di frutti. I contadini non vogliono riconoscere il padrone come tale. Questo è il loro peccato. Si comportano come se la vigna appartenesse a loro. E quando uccidono il figlio lo dicono chiaro: vogliono farsi eredi e padroni.
Ma rifiutando la signoria di Dio, rifiutano la pietra angolare, l’unica che sostiene il mondo-Senza il riconoscimento di Dio, il mondo non sta in piedi, la convivenza si frantuma: “Si può costruire un mondo senza Dio, ma sarà sempre contro l’uomo” (Card. Henri de Lubac).
2) I poveri di spirito: i fedeli di Dio
Dio è sempre fedele al suo amore misericordioso, alle sue promesse e il suo disegno di salvezza non è interrotto e  le sue esigenze di verità e giustizia non sono messe da parte. Per questo Gesù, il Figlio di Dio termina la parabola con una visione positiva: la storia perenne dell’amore di Dio e del mio tradimento non si risolve in una sconfitta. Il peccato non blocca il piano di Dio. L’esito della storia sarà buono, la vigna generosa di frutti, il Padrone non sprecherà i giorni dell’eternità in vendette. Per rivelare la sua bontà che non reagisce al male, ma propone il bene, il Messia dice che la vigna è data a un Popolo Nuovo, il resto di Israele, i poveri di spirito, i che avrebbero accolto umilmente Gesù e il suo lieto Vangelo di amore.
In questi piccoli, “scartati” dal popolo come i “costruttori scartavano le pietre” sbrecciate e inadatte alla costruzione del Tempio, il Signore diviene la “Pietra angolare” del Nuovo Tempio, il suo corpo risorto e vivo nella storia. In loro si rivela la vittoria della pazienza infinita di Dio su ogni criterio religioso o mondano di giustizia.
Oggi ci è offerta ancora la possibilità di far parte di questo “resto di Israele”, di questi poveri di spirito. Basta riconoscere di essere peccatori, come Pietro sulle sponde del Lago di Galilea quando consegnò a Cristo il suo dolore e Cristo lo confermò nel suo amore. Basta che accogliamo l’invito di andare a lavorare nella vigna anche se manca una sola ora al termine del lavoro. Basta che convertiamo il cuore per trasformare il nostro “no” in un amoroso “sì”.
Allora la “Vigna” sarà tolta al nostro uomo vecchio e sarà donata all’uomo nuovo, povero e, quindi, capace di accogliere con stupore e gratitudine il perdono, umile per obbedire alla Chiesa. Santo perché unito a Cristo, il frutto che siamo chiamati ad offrire al mondo.
Nella Vigna del Signore, nella sua Chiesa, tutto è gratuito: è gratuita l’innocenza e la verginità di Teresa del Bambin Gesù, la testimonianza fino al martirio di Pietro e Paolo, la conversione di Agostino e di Charles de Foucauld, la scienza teologica di Tommaso d’Aquino e di John-Henry Newman, il ministero di misericordia di P. Pio da Pietrelcina, la missione di carità di M. Teresa di Calcutta. La lunga lista delle Vergini consacrate: note alla Chiesa come Santa Geneviève e Marcellina, sorella si Sant’Ambrogio, e note solo a Dio nel cui cuore il loro nome è scritto.
Sul loro esempio le vergini consacrate di oggi, e noi con loro, non accampiamo meriti o pretese davanti a Dio. Lui non guarda alla quantità delle nostre prestazioni. Guarda il cuore ed attende di trovarvi solo il nostro amore, la nostra fiducia, la nostra adesione alla sua chiamata fatta in totale abbandono ed in amorosa fiducia. L’importante è che umilmente preghiamo: “Proteggimi, o Gesù, e accoglimi con la tua mano santa. Aprimi la porta della tua misericordia, perché segnata dalla tua saggezza profonda sia libera da ogni invidia terrena e secondo i tuoi precetti soavi ti serva nella santa Chiesa in allegrezza giorno per giorno progredendo di virtù in virtù” (Gertrude di Helfta).
A lui che disse: “Io sono la vite e voi i tralci che rendo fecondi” diciamo grazie dal più profondo del cuore, e umilmente domandiamo che ci conceda la grazia di rimanere sempre  uniti a lui
nell’eterno mistero
del morire e del risorgere, dell’offerta di sé al Padre.
Le Vergini consacrate nel mondo hanno offerto e rinnovano l’offerta di se stesse “come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1). Mediante questa offerta esse ineriscono a Cristo come tralci alla vite e il loro essere con Cristo è il segreto della loro fecondità spirituale.
Insieme con Cristo, queste donne consacrate sono accanto ai fratelli e sorelle in umanità, che “coltivano” avendo cura del loro bene.
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Lettura Patristica
Sant’Ambrogio di Milano
In Luc. 9, 23-30.33
Un uomo piantò una vigna” (Lc 20,9). Parecchi deducono diversi significati dal nome della vigna, ma è evidente che Isaia ha ricordato come la vigna del Signore di Sabaoth sia la casa d’Israele (Is 5,7). Chi altro mai, se non Dio, ha creato questa vigna? È dunque Lui che la diede in affitto e partì per andare lontano, non nel senso che il Signore si sia trasferito da un luogo all’altro, dato che Egli è sempre dappertutto, ma perché è più vicino a chi lo ama, ma sta lontano da chi lo trascura. Egli fu assente per lunghe stagioni, per evitare che la riscossione sembrasse prematura. Quanto più longanime la benevolenza, tanto più inescusabile la ostinatezza.
Per cui, secondo Matteo, giustamente trovi che “la circondò anche di una siepe” (Mt 21,33 Is 5,2), cioè la recinse munendola della protezione divina, affinché non fosse facilmente esposta agli assalti delle belve spirituali.
E al tempo dei frutti mandò i suoi poveri servi. È giusto che abbia indicato il tempo dei frutti, non il raccolto, infatti dai Giudei non si ebbe alcun frutto, questa vigna non ha dato alcun raccolto, poiché di essa il Signore dice: “Attendevo che producesse uve, ma essa diede spine” (Is 5,2). Perciò i torchi traboccarono non di vino che rallegra, non di mosto spirituale, ma del sangue rosseggiante dei profeti. Del resto Geremia fu gettato in una cisterna (Jr 38,6), di questa specie erano ormai i torchi dei Giudei, pieni non di vino ma di melma. E sebbene, come sembra, questa sia un’allusione generale ai profeti, tuttavia il passo ci permette di pensare che si tratti di quel ben noto Nabot (cf. 1R 21,1-14), il quale fu lapidato: sebbene di lui non ci sia stata tramandata nessuna parola profetica, ci è stata però tramandata la sua storia profetica, poiché prennunziò col proprio sangue che molti sarebbero stati i martiri a favore di questa vigna. E chi è colui che viene colpito al capo? È certamente Isaia, a cui una sega poté più facilmente tagliare in due le membra del corpo che non far vacillare la fede, o sminuir la costanza, o troncare il vigore dell’anima.
E ciò avvenne perché, quando ormai aveva designato tanti altri estranei, che i Giudei cacciarono senza onore e senza risultati, non essendo riusciti a cavarne nulla, per ultimo mandò anche il Figlio unigenito, e quei perfidi, mossi dalla bramosia di eliminarlo perché era l’erede, l’uccisero (cf. Lc 20,13ss) crocifiggendolo, lo respinsero rinnegandolo.
Quante cose, e quanto importanti, in così brevi tratti! Anzitutto questo: che la bontà è una dote di natura, e il più delle volte si fida di chi non lo merita; inoltre, che Cristo è venuto come estremo rimedio delle perversità; infine, che chi rinnega l’Erede, dispera del Creatore. E Cristo (He 1,2) è al tempo stesso erede e testatore; erede, perché sopravvive alla propria morte e raccoglie nei progressi che facciamo direi come i frutti ereditari dei testamenti, ch’Egli stesso ha stabilito.
È però opportuno che faccia domande agli interlocutori, affinché emettano da sé stessi la sentenza della propria condanna. E afferma che alla fine giungerà il padrone della vigna (Lc 20,16), perché nel Figlio è anche presente la maestà del Padre, o anche perché negli ultimi tempi, più da vicino influirà dolcemente sugli affetti umani. Quindi coloro pronunciano contro sé stessi la sentenza, affermando che i cattivi devono andare in rovina e la vigna passare ad altri coloni (“ibid.”). Consideriamo allora chi siano i coloni, e che cosa sia la vigna.
La vigna prefigura noi: il popolo di Dio, stabilito sulla radice della vite eterna (Jn 15,1-6), sovrasta la terra e formando l’ornamento del suolo meschino, ora comincia a far sbocciare fiori splendenti come gemme, ora si riveste dei verdi germogli che l’avvolgono, ora accoglie su di sé un mite giogo (Mt 11,29), quando è ormai cresciuto estendendo i suoi bracci ben cresciuti come tralci di una vite feconda. Il vignaiolo è senza alcun dubbio il Padre (Jn 15,1) onnipotente, la vite è Cristo, e noi siamo i tralci (Jn 15,5): ma se non portiamo frutto in Cristo veniamo recisi (Jn 15,2) dalla falce del coltivatore eterno. Perciò è esatto che il popolo sia chiamato la vigna di Cristo, sia perché sulla sua fronte vien posto come ornamento il segno della croce, sia perché si raccoglie il suo frutto durante l’ultima stagione dell’anno, sia perché allo stesso modo che avviene per tutti i filari della vigna, così nella Chiesa di Dio uguale è la misura, e non vi è alcuna differenza tra poveri e ricchi, tra umili e potenti, tra schiavi e padroni (Col 3,25 Ep 6,8). Come la vite si sposa agli alberi, così il corpo si congiunge all’anima, e anche l’anima al corpo. Come il vigneto sta ritto quand’è legato insieme, e, se viene potato, non s’impoverisce ma diventa più rigoglioso, così la santa plebe quand’è legata è resa libera, quand’è umiliata si innalza, quand’è recisa riceve la corona. E, persino, come il tenero virgulto staccato dall’antico albero viene innestato nella fecondità di una nuova radice, così questo popolo santo, quando ha rimarginato i tagli dell’antico virgulto, si sviluppa perché è tenuto al sicuro dentro quel legno della croce come nel grembo di una madre affettuosa; e lo Spirito Santo, come se discendesse giù nelle buche profonde del terreno, riversandosi nel carcere di questo corpo, lava via il fetidume con la corrente dell’acqua che salva, e solleva le abitudini delle nostre membra all’altezza della disciplina celeste.
Questa è la vigna che il premuroso vignaiolo è solito zappare aggiogare insieme, potare; egli, sgombrando i pesanti mucchi di terra, ora espone al sole cocente, ora fa intridere alla pioggia le miserie nascoste del nostro corpo, e suole sbarazzare dagli sterpi il terreno coltivabile per evitare che le gemme siano guaste dai rovi, o l’ombra del fogliame lussureggiante sia troppo densa o lo sfoggio infecondo delle parole, aduggiando le virtù, impedisca che la caratteristica della sua natura giunga a maturazione. Ma guardiamoci bene dal temere qualsiasi danno a questa vigna, che il custode sempre desto del Salvatore ha circondato col muro della vita eterna contro tutte le lusinghe della malizia mondana.
Salve, vigna meritevole di un custode così grande: ti ha consacrato non il sangue del solo Nabot (cf. 1R 21,13) ma quello di innumerevoli profeti, e anzi quello, tanto più prezioso, versato dal Signore. È bensì vero che colui, senza farsi atterrire dalle minacce di un re, non soffocò la costanza con la paura né, allettato da ricchissime ricompense, barattò il suo sentimento religioso ma, opponendosi al desiderio del tiranno, perché l’erba della malva non si seminasse nei suoi orticelli al posto delle viti recise, contenne col proprio sangue, non potendo fare altro, le fiamme preparate per le proprie viti; ma egli difendeva pur sempre una vigna (cf. 1R 21,2) materiale; invece tu per noi sei stata piantata per l’eternità con lo sterminio di tanti martiri, e la croce degli apostoli, emulando la passione del Signore, ti ha diffusa fino ai confini del mondo.
* Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.
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NOTE
[1] “Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna.Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi, E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna.Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva,essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata.La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia.Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita.Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi.  (Is 5, 1-7)