giovedì 12 ottobre 2017

Giovedì della XXVII settimana del Tempo Ordinario



Quaggiù non c'è nulla di più santo da desiderare, 
nulla di più utile da cercare, 
nulla più difficile da trovare, 
niente più dolce da provare, 
niente più fruttuoso da conservare dell'amicizia.  

Aelredo di Rievaulx 

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Dal Vangelo secondo Luca 11,5-13
Poi aggiunse: «Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se quegli dall'interno gli risponde: Non m'importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.
Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?
Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!».

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Non a caso Gesù ambienta la parabola nel cuore della notte; essa è immagine di quella in cui Dio ha "liberato i figli di Israele, nostri padri, dalla schiavitù dell'Egitto" (Exultet di Pasqua). Un "amico" è giunto sulla soglia della nostra casa, nel mezzo del suo cammino, e ha chiesto ospitalità. In oriente essa è sacra, e per un ebreo costituisce uno degli appelli più pressanti della Torah. Il nome stesso "‘ibri", "ebreo", che i popoli confinanti davano a Israele e da lui accolto come suo, significa "abitante al di là della frontiera", cioè straniero. Ogni ebreo ha il dovere sacro dell'ospitalità "… perché voi siete stati stranieri in terra d’Egitto" (Es 22,20; 23,9). Per un ebreo, l'Egitto è il "luogo dell'angoscia" dal quale il Signore lo ha tratto in salvo, senza alcun merito. E quante volte, nella notte del deserto, il Popolo senza pane ha "bussato" alle porte del Cielo e sempre Dio lo ha esaudito. Ma ha "chiesto" mormorando, e "cercato" dubitando. Ma proprio nella misericordia di Dio così sproporzionata rispetto al suo cuore duro ed esigente, Israele ha conosciuto se stesso. E' notte anche oggi, per questo il Signore ci chiama a farci pellegrini per andare a "bussare", umilmente, alla porta dell'Amico: dobbiamo chiedere quello che non abbiamo per essere quello che dovremmo essere. Non abbiamo il "pane" per sfamare l'amico che bussa alla nostra porta; siamo senza amore per la moglie, il marito, i figli, i colleghi. Non possiamo accogliere quanti, stanchi e affaticati, cercano in noi ospitalità: è sacra, ci definisce come figli del Padre che ci ha accolto sempre con misericordia, ma non possiamo. Come l'uomo della parabola non abbiamo il pane necessario ogni giorno, l'alimento sostanziale per accogliere il suo amico - quello che Gesù invita a chiedere nel Padre Nostro. Che amicizia possiamo offrire? Dovremmo chiederci se davvero ci sta a cuore la sorte dell'amico che bussa alla nostra porta, se marito, moglie, figli e chi ci è accanto è davvero nostro amico, un "altro me stesso" come lo fu Gionata per Davide, al punto di legare indissolubilmente la sua vita a quella del suo amico, e di morire per lui. E dovremo ammettere che probabilmente non ci siamo mai svegliati di notte per pregare per loro, pensando magari di risolvere le questioni mondanamente; e ci siamo ritrovati senza "pane" e così non possiamo accogliere Cristo che "bussa" alla porta celato nel bisogno del fratello. Ma è pur vero che, essendo padri cattivi - "schiavi", secondo l'etimologia del termine "cattivi" - sino ad ora abbiamo dato "cose buone" ai nostri figli; non li abbiamo ingannati dandogli una cosa per un'altra. In Palestina, infatti, lo scorpione può essere anche biancastro, e quando si arrotola su se stesso per nascondersi e camuffarsi, assume una forma molto simile a un piccolo uovo. L’anguilla, poi, assomiglia molto a una biscia, mentre certe focacce erano simili a delle pietre. Ebbene, proprio partendo dal nostro cuore paterno possiamo intuire quello dell'Amico celeste, il Padre che può donarci lo Spirito Santo per nutrire la natura divina che è in noi, il frutto compiuto della Pasqua, l'alito della vita eterna che ha risuscitato il Figlio, il sigillo che ha messo sul Pane che discende dal Cielo, la carne benedetta di Gesù, con la quale ha vinto il peccato e la morte. Perdonati e risuscitati nello stesso Spirito, potremo donarci anche noi come "pane" capace di offrire la vita anche a chi ci dà la morte; come "pesci" pescati nelle profondità del peccato saremo un segno di speranza che annuncia e testimonia il perdono di ogni peccato. Coraggio, Gesù ci invita a fare memoria della Pasqua nella comunità cristiana, ricordando la nostra storia per entrare così nella verità che è il bisogno estremo di chi non ha nulla. E così convertirci camminando verso la fonte della Grazia scendendo insieme al suo Popolo Santo i gradini dell'umiltà e imparare a confidare nel Padre, per ricevere lo Spirito Santo, l'unico che plasma in noi l'amico di Dio e di ogni uomo. Coraggio, nella Chiesa degli amici dell'Amico, in ogni notte che ci avvolge possiamo "importunare" l'Amico perché "L’amico ama in ogni circostanza; è nato per essere un fratello nella avversità" (Pr 17,17) capace di farci figli in Lui.