giovedì 22 giugno 2017

Dio cerca l’uomo con le religioni.




Il Regno

(Giorgio Bernardelli) A ormai oltre dodici anni dalla sua morte torna a far parlare di sé padre Jacques Dupuis, il teologo gesuita che, tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, con il libro Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso (Queriniana, Brescia 1997) finì al centro di un’indagine molto discussa della Congregazione per la dottrina della fede. Negli Stati Uniti esce in questi giorni un libro-intervista postumo che non a torto è stato definito «l’ultimo testamento» di padre Dupuis, gesuita di origine belga, per 35 anni missionario in India e poi chiamato a Roma come docente alla Pontificia università gregoriana e consultore del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso.
Do no stifle the Spirit (Non soffocare lo Spirito) è il titolo tratto dalla prima Lettera ai Tessalonicesi che padre Dupuis stesso aveva scelto personalmente per questo volume, pubblicato da Orbis Books, la casa editrice dei Missionari di Maryknoll. Si tratta di una lunga intervista al teologo, condotta a più riprese – tra il 2002 e il 2004 – dal giornalista irlandese Gerard O’Connell, oggi corrispondente da Roma per la rivista America e all’epoca dell’indagine su Dupuis vaticanista di The Tablet e dell’agenzia cattolica asiatica Ucan.
Un lungo dialogo a 360 gradi in cui padre Dupuis parla della sua vita, degli anni trascorsi in India, del suo pensiero, ma anche di tutti i retroscena e le amarezze personali vissute durante il procedimento condotto dalla Congregazione.
Padre Dupuis aveva rivisto personalmente il testo dell’intervista e lo aveva riconsegnato all’amico giornalista pochi giorni prima della caduta che lo portò a una morte improvvisa, il 28 dicembre 2004, all’età di 81 anni (cf. l’ampio profilo bio-bibliografico in Regno-att. 2,2005,63). Perché, dunque, il libro è stato pubblicato solo adesso?
Nessuno ha veramente letto il mio libro
È lo stesso O’Connell a spiegarlo nell’Introduzione: padre Dupuis aveva chiesto di non diffonderlo finché Giovanni Paolo II era papa e il card. Josef Ratzinger prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. La ragione è facilmente intuibile: voleva evitare che il libro portasse a nuove polemiche e alla riapertura del suo caso personale; tanto più che – anche dopo l’epilogo della vicenda, avvenuto con la Notificazione a proposito del libro del p. Jacques Dupuis si, Verso una teologia del pluralismo religioso del 2001 che riconosceva «il tentativo» dell’autore di rimanere nei «limiti dell’ortodossia» ma nello stesso tempo metteva in guardia su una serie di «notevoli ambiguità e difficoltà su punti dottrinali di rilevante portata» contenuti nel libro (Regno-doc. 5,2001,143) – padre Dupuis continuava a denunciare un clima di sospetto nei suoi confronti, anche all’interno della stessa Compagnia di Gesù. 
Allora, però, nessuno immaginava che alla morte di Wojtyla proprio il cardinale Ratzinger sarebbe stato eletto come successore di Pietro. Una circostanza che portò O’Connell a decidere di tenere ulteriormente nel cassetto l’intervista, per non tradire il senso dell’istruzione ricevuta dall’amico gesuita.
Va aggiunto che negli ultimi anni sono stati comunque pubblicati due articoli che il teologo aveva scritto come propria autodifesa sulle osservazioni avanzate nella Notificazione (cf. anche l’articolo pubblicato da Dupuis in Regno-att. 16,2003,560) e – più in generale – sul contenuto della dichiarazione Dominus Iesus, il documento cristologico della Congregazione per la dottrina della fede la cui elaborazione andò a intrecciarsi con la sua vicenda. Due testi per i quali padre Dupuis si era visto negare l’autorizzazione alla pubblicazione dai superiori della Gregoriana e raccolti infine nel 2012 da William Barrows nel volume Jacques Dupuis faces the Inquisition (trad. it. Perché non sono eretico, EMI, Bologna 2014).
Ora però, nel clima di riforme voluto per la Chiesa da papa Francesco, Gerard O’Connell ha ritenuto maturi i tempi per rendere pubblica anche l’altra parte della riflessione di padre Dupuis. Quella che – oltre a riaprire la riflessione sul significato teologico del rapporto tra la figura di Gesù e le altre tradizioni religiose – chiama in causa le modalità concrete attraverso cui la Congregazione per la dottrina della fede agisce nei suoi giudizi sull’ortodossia delle posizioni dei singoli teologi.
Dall’inizio alla fine dell’intervista a O’Connell emerge, infatti, tutta l’amarezza di padre Dupuis per essersi trovato al centro di un’indagine che metteva in dubbio la sua fedeltà al magistero. Il suo è un atto d’accusa nei confronti di un ambiente e di un modo di procedere nel quale non sarebbe possibile un vero confronto. Questione non da poco, se si considera che il gesuita belga riteneva che il suo libro Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso fosse stato essenzialmente letto in maniera distorta da chi l’aveva denunciato.
All’allora cardinale prefetto Ratzinger, oggi Benedetto XVI, nel colloquio con O’Connell padre Dupuis contestava il fatto di averlo incontrato una volta sola – in occasione della convocazione davanti alla Congregazione, avvenuta il 4 settembre 2000 – a due anni di distanza dall’apertura del procedimento sul suo libro, comunicata dallo stesso Ratzinger al superiore generale dei gesuiti Hans Kolvenbach (una delle poche figure che il gesuita belga raccontava d’avere sempre avuto al suo fianco).
Ho completato le intuizioni di Giovanni Paolo II
Dupuis sosteneva di aver capito che il prefetto del dicastero dottrinale non aveva personalmente approfondito la questione, ma si era fidato dell’istruttoria fortemente critica nei suoi confronti compiuta dai suoi collaboratori. 
«Ratzinger – racconta O’Connell nell’intervista – quel giorno mi disse chiaramente che le mie 188 pagine di risposte alle obiezioni erano troppe e che non potevo aspettarmi che la Congregazione studiasse tutto quel materiale».
Al di là dei nomi e delle situazioni ampiamente citate nella ricostruzione di padre Dupuis, a rendere oggi ancora attuale questa vicenda è soprattutto il riferimento al tema della riforma della Curia romana, proposto espressamente dal gesuita belga.
«Il mio caso è una goccia nell’oceano, ma l’oceano è fatto di gocce d’acqua», commenta a un certo punto. Nell’intervista sono citati precedenti come i casi di Congar e Schillebeeck per sostenere che anche l’esercizio dell’autorità nei confronti del pensiero teologico dovrebbe essere un tema da affrontare nella riforma.
In particolare padre Dupuis criticava il fatto che l’autorità del papa venga messa in gioco in ogni singolo passaggio del procedimento dalla Congregazione della dottrina della fede; l’intento chiaro – sosteneva – è escludere ogni possibilità di un’istanza di ricorso a un’autorità superiore. 
A una domanda di O’Connell su che cosa avrebbe detto a Giovanni Paolo II nel caso avesse potuto incontrarlo, padre Dupuis rispondeva che difficilmente una possibilità del genere è riservata a chi finisce sotto accusa alla Congregazione. «Ma se dovesse succedere e potessi parlare liberamente – aggiungeva – professerei la mia lealtà alla Chiesa e alla persona del papa in ragione del ministero universale di unità che esercita. Ma non esiterei anche ad aggiungere che, se non mi sbaglio, molte delle cose che ho detto e scritto confermano la linea da lui seguita in molti suoi pronunciamenti. Perché lui ha parlato con forza della presenza universale dello Spirito di Dio, sottolineando che ogni preghiera autentica, anche quando indirizzata a un Dio ignoto, procede in tutti gli esseri umani dall’azione dello Spirito in loro».
«Io ho voluto portare questo ragionamento alle sue conclusioni teologiche e organizzarle in un discorso esplicito – concludeva il gesuita belga –. Ed è vero che nel mio procedimento ho trovato congeniali alcune ipotesi che a qualcuno sono sembrate contraddire la fede o la dottrina tradizionale della Chiesa; ma la loro incompatibilità con la fede non è stata dimostrata in maniera convincente. Sembra esserci stata piuttosto una corsa a denunciare e anche una tendenza a condannare, anziché uno sforzo di comprendere e una volontà di discutere; un’assenza totale di vero dialogo spinta dall’urgente bisogno di riaffermare l’“identità cristiana” di fronte a pericolosi errori».
Alla fine il nodo posto dal caso Dupuis resta questo, insieme al tema tuttora ampiamente irrisolto del rapporto tra cristologia e inculturazione. A questo proposito particolarmente interessante nel libro è il primo capitolo, quello in cui l’anziano gesuita ripercorre i suoi trentacinque anni in India.
Tra gli aneddoti sul postconcilio molto bello e simbolico è il racconto di come all’indomani dell’approvazione della costituzione Sacrosanctum concilium nella facoltà teologica di Kurseong, ai piedi dell’Himalaya, docenti e studenti si fossero messi fisicamente al lavoro con le proprie mani per far entrare elementi della tradizione religiosa indiana nella ristrutturazione della cappella. Uno sforzo che avrebbe avuto maggior successo rispetto alla «preghiera eucaristica per l’India», scritta con la stessa logica, ma mai approvata da Roma.
Padre Dupuis considerava una grazia personale aver vissuto come teologo in India; una terra che aveva voluto percorrere anche per 2.000 chilometri su una motocicletta, quando la sua facoltà si era trasferita a New Delhi. Attraverso quel viaggio e mille altri incontri spiegava d’aver capito che «le tradizioni religiose del mondo non hanno rappresentato lo sforzo dei popoli per cercare Dio attraverso la propria storia, ma il modo in cui Dio ha cercato loro».
Da qui il bisogno profondo di cercare un incontro tra la fede piena in Gesù Cristo salvatore del mondo e il riconoscimento nel disegno divino di salvezza di un valore non solo di facciata per le altre tradizioni religiose. Una sfida che le pagine raccolte da Gerard O’Connell rilanciano in tutta la sua profondità e urgenza.