mercoledì 22 marzo 2017

Terrorismo e buon senso




Attacco Londra: vescovi inglesi, “le nostre preghiere per tutti coloro che sono stati colpiti” 
SIR 

“I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con tutti coloro che sono stati  colpiti nell’incidente di Westminster questo pomeriggio”. È la primissima reazione dei vescovi di Inghilterra e Galles all’attacco di questo pomeriggio a Londra alla sede del Parlamento britannico, a Westminster. I vescovi – spiegano da Westminster – stanno attendendo maggiori informazioni da parte delle forze dell’ordine per capire meglio (...) 

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Le tante, troppe paure che ci fanno perdere l’essenzialità del buon senso quotidiano

(Damiano Serpi - ©copyright) Terrorismo. Chi non ne ha paura ? Tutti, in un modo o nell’altro, siamo condizionati nel nostro portare avanti la vita di ogni giorno dalla paura di un terrorismo che si è dimostrato così violento, radicato e spregiudicato da abbattere ogni barriera che eravamo convinti potesse sufficientemente proteggerci da ogni rischio. La realtà, invece, ci ha dimostrato che siamo vulnerabili, impreparati, poco coesi e incapaci di convivere con ciò che non riusciamo a dominare o catalogare a priori.
Questo ha generato e genera tante paure. La paura di non essere tranquilli a casa nostra o mentre si viaggia, la paura di essere sempre nel mirino di cattive persone che, simili a noi in tutto, tramano nell’ombra per farci del male, la paura del vicino “diverso” che non abbiamo mai capito o voluto conoscere, la paura di una società globale che ha fatto della mobilità estrema e della comunicazione immediata i suoi più ricercati paradigmi.Paure, tutte queste, che non riusciamo a gestire e che lasciamo che altri, siano esse le autorità competenti, i politici, gli esperti commentatori o i mass media, governino e usino a proprio piacimento perseguendo, spesso e volentieri, solo obiettivi di facciata o facili populismi. 
In tutte queste paure, giustamente motivate in un cittadino immerso nel caos della nostra società, ciò che stiamo pian piano perdendo è quella essenzialità del buon senso quotidiano che regola quegli aspetti del nostro comportamento che ci vengono spontanei e automatici davanti alle cose che incontriamo o sulle quali ci scontriamo. Noi non ce ne rendiamo neanche conto perché, oramai, gli automatismi abituali ci portano a comportarci secondo regole e modelli che sfuggono ad un esame più attento della nostra ragione di uomini dotati di grandi capacità di analisi e discernimento. 
Ieri, ad esempio, dagli Stati Uniti d’America è arrivata la notizia che sui voli in arrivo da una decina di paesi del Medio Oriente e del Nord Africa non sarà più consentito ai passeggeri, tutti i passeggeri, di portare con se a bordo computer portatili, tablet e macchine fotografiche. Una notizia arrivata così, all’improvviso e accompagnata soltanto da una generica motivazione connessa alla sicurezza dei voli. Tanto è bastato perché l’Inghilterra seguisse a ruota, mentre Canada e Francia iniziassero a pensare seriamente di adeguarsi alla decisione. Tanto è bastato perché tutti i mass media iniziassero a parlare di minaccia concreta, di attentati imminenti, di pericolo nei cieli, di colpo di coda dell’Isis o di ciò che resta di Al Qaeda. Non importa se le informazioni erano generiche, l’importante è stato mettere in risalto le inequivocabili esigenze di sicurezza. Quali ? Nessuno di noi lo sa. Evidentemente qualcuno conoscerà qualcosa in più, tuttavia non è stato ritenuto utile farlo sapere ai cittadini. Evidentemente la minaccia è concreta se si è deciso di prendere un provvedimento così limitativo, tuttavia nessuno ne sa di più.
Proprio nel momento che gli schermi dei monitor informativi degli aeroporti di tutto il mondo diffondevano la notizia appena giunta, mi trovavo a far la fila per i controlli all’aeroporto di Fiumicino. La fila era lunga e la gente variopinta come sempre. Davanti a me c’era una coppia di anziani siciliani che rientrava a casa dopo un viaggio a Roma per far visita ai figli, ancora più avanti un gruppo di giovani studenti in partenza per qualche paese europeo, poi più in là due uomini tedeschi in città per affari e una donna islamica accompagnata da suo figlio. Non so perché, ma ho prestato molta attenzione a ciò che succedeva. La signora islamica, sicuramente tunisina, aveva tentato per la terza volta di passare il varco del metal detector col suo velo in testa. Tutto inutile, la luce rossa indicava che qualcosa non andava. Panico generale. Gli addetti al controllo si sono domandati cosa fare. La gente in coda iniziava a allontanarsi sempre più da quella donna e scegliere altre corsie. Anche al quarto passaggio il bip prolungato del metal detector imponeva lo stop. La donna non ha mostrato nervosismo, è tornata indietro e cercava di capire cos’altro di quello che aveva addosso potesse suonare. Nell’apposito contenitore aveva già depositato tutto quello che credeva potesse suonare, giubbotto, giacca, anelli, braccialetti, collane, spille, forcine. Aveva persino tolto le scarpe. 
La fila restava bloccata e si era creato un buco tra quella donna, alle prese con i controlli, e gli altri passeggeri in attesa. Tutti si tenevano alla larga. Anche il quinto tentativo abortì implacabilmente e così gli addetti alla sicurezza decidevano di portare la donna, debitamente scortata, in uno stanzino riservato per effettuare un controllo personale più accurato. Ora era il turno del figlio della donna, un giovane sui 20 anni con ben chiari i lineamenti della sua etnia di origine. Il metal detector questa volta non rivelò nulla di anomalo e la luce verde si accese subito dando quel via libera tanto sospirato. Tuttavia il nastro dei bagagli si fermò. Qualcosa non andava bene. I monitor degli scanner avevano intravisto nel bagaglio a mano qualcosa che non poteva passare. Tutto di nuovo bloccato. La gente in fila aveva iniziato a mantenere sempre più distanza e ormai scegliere gli altri varchi di controllo era impossibile. 
Tutto si era bloccato nuovamente. Gli addetti alla sicurezza hanno fatto scorrere il bagaglio a mano del giovane in un altro scompartimento per procedere al controllo. Nulla di grave, la madre del giovane si era dimenticata di buttar via una bottiglietta d’acqua prima di passare i controlli. Capita, capita spessissimo. Tuttavia il bagaglio fu nuovamente minuziosamente controllato e ripassato ai raggi dopo aver tolto la bottiglietta d’acqua. Così si poteva dare il via agli altri viaggiatori in attesa che, però, mostravano riluttanza nell’avvicinarsi troppo a quel giovane che stava recuperando dal nastro trasportatore i propri bagagli per poi aspettare la madre ancora sotto esame dentro uno stanzino. Evidentemente non ci si fidava di lui neanche dopo l’esito dei controlli. Chissà, forse qualcosa da nascondere ce l’aveva davvero e tutti quelli allarmi non deponevano bene. Pian pianino la fila iniziò a defluire e fu il turno della donna siciliana con suo marito che stava proprio davanti a me. Anche per lei il metal detector dette luce rossa per ben due volte, tuttavia non dovette passare una terza volta. Dopo una rapida occhiata l’addetta ai controlli le fece cenno di proseguire e non ci fu bisogno di farle togliere orecchini e scarpe. Anche il marito fu bloccato. Il contenitore del suo bagaglio a mano subì la stessa sorte di quello del giovane tunisino. Anche il gioviale signore siculo aveva dimenticato nella borsa della moglie un succo di frutta integro. 
Due casi simili, identici, tuttavia trattati e percepiti in modo totalmente opposto. Per la coppia di siciliani nessuno ha provato paura, sospetto o diffidenza davanti agli allarmi del sistema di controllo, tutt’al più insofferenza per l’ulteriore perdita di tempo. La percezione della loro pericolosità era pari a zero. La donna non poteva essere una attentatrice e quindi la dimenticanza di togliersi i vistosi orecchini in metallo o gli stivaletti con le borchie in ferro era passata come veniale e meritevole di indulgenza. L’uomo si era solo scordato di buttar via quel succo di frutta in brik alla pesca, niente di cui sospettare o imporre un secondo passaggio del bagaglio allo scanner.
Diverse, seppure uguali nella sostanza, erano state percepite le mancanze della donna tunisina accompagnata dal figlio durante la fase dei controllo. Per quella donna, di circa 50 anni, non valeva nessuna presunzione di giustificabilità del suo comportamento. Aveva depositato tutto su quel contenitore, tutto. Tuttavia per lei non era ancora sufficiente e, dopo il quinto passaggio a piedi scalzi sotto il metal detector, era ancora necessaria una perquisizione corporale personale.  Tutti gli astanti, addetti dell’aeroporto e passeggeri, avvertivano qualcosa di insicuro in quella coppia di viaggiatori “islamici” traditi dai loro lineamenti e dall’uso del velo a coprire i soli cappelli. Per loro non valeva la presunzione di innocenza o la valutazione, percepibile al tatto, che si trattava semplicemente di una madre in viaggio con il figlio verso la terra di origine. Per loro le domande si sprecavano. Da dove venite ? Dove andate ? Fate scalo da qualche parte ? Per cortesia ci può mostrare nuovamente la carta di imbarco e il passaporto ? Nessuno si è posto nei panni di quella donna, costretta a compiere un percorso forse solo perché nord africana. Come si sarà sentita quella donna osservata da tutti ? Cosa avrà provato ad essere trattata in modo così diverso e più invasivo ? Nessuno se lo è chiesto, era più forte la paura e l’esigenza di un approfondito controllo che tutelasse tutti. 
La paura era comunque quella che potesse esserci qualcosa di losco in quei segnali di allarme, gli stessi segnali di allarme che suonarono per la copia di siciliani per la quale nessuno degli astanti provò paura.  Ciò che differiva e faceva nascere una percezione diversa su due fatti esattamente identici era l’origine, la cultura, l’appartenenza, il modo di essere delle due coppie. Una non poteva rappresentare alcun tipo di problema o minaccia, era classificata come coppia innocua alla sola vista. L’altra, invece, poteva essere tendenzialmente pericolosa e quindi occorreva diffidare e usare ogni cautela. 
Quella donna tunisina con figlio non erano state controllate e ripetutamente analizzate perché vi era un concreto sospetto su di loro o una informativa al loro riguardo, ma soltanto perché appartenevano a quella classe di persone che si crede, si reputa e si ipotizza possano potenzialmente essere “pericolose”. Il loro aspetto, il loro modo di vestire, le caratteristiche somatiche date da madre natura, il loro atteggiamento comportamentale era già sufficiente perché su di loro si prestasse maggiore attenzione e si venisse trattati diversamente.  Il suono dei sistemi di allarme non ha fatto altro che far aumentare questa percezione e la paura di trovarsi, in qualche modo, davanti a pericolosi potenziali terroristi. Il giudizio di pericolosità su di loro, soprattutto quello dei viaggiatori in transito, non si è basato su reali circostante o sospetti concreti, bensì solo sull’aspetto fisico, su quel velo portato con ostinatezza sopra i cappelli, sull’appartenenza ad un gruppo, sull’ipotesi, tutta da provare, che potessero essere “islamici” (e quindi appartenenti a quella categorie di persone che ci odia così tanto da ucciderci senza pietà).
Il comportamento dei passeggeri in fila è stato illuminante di come la convivenza con la paura del terrorismo, con una martellante informazione mediatica e con la costante etichettatura delle cose si trasformi poi, nel quotidiano, in atteggiamenti automatici e semplici la cui spontaneità è, nello stesso tempo, disarmante e pericolosa. 
Tanto disarmante e pericolosa come lo sono certe decisioni amministrative e legislative prese negli ultimi mesi che, con il pretesto di voler garantire ai cittadini maggiore sicurezza, insinuano generici dubbi, o peggio fanno nascere forti preconcetti, su intere classi di persone senza aver basato il giudizio su ponderati dati di fatto. La decisione di cui si è detto in precedenza, quella di vietare ai viaggiatori in partenza da certe parti del mondo di portare a bordo con se pc e tablet, non ha nulla di quel buon senso che ci dovrebbe guidare nelle scelte di ogni giorno. Basta fermarsi ad analizzare la portata della scelta e farsi alcune domande. Perché chi parte da certi paesi mediorientali o del Nord Africa non potrebbe portare con se il tablet o il pc portatile, mentre da tutto il resto del mondo, dove gli attentati terroristici di matrice fondamentalista (esempio il Bangladesh) sono quotidiani, si può fare tranquillamente ? Perché, se il rischio è davvero attuabile, pubblicizzare tale decisione ai quattro venti dando così ai potenziali terroristi la possibilità di cambiare aeroporto di partenza o compagnia di volo per poter comunque portare a termine il loro programma di morte ? Se la minaccia è davvero concreta, perché non porsi il problema dei viaggiatori che fanno scalo e che potrebbero in questo modo aggirare tranquillamente il divieto ? Perché chi proviene dalla Turchia non può portare con se il tablet mentre chi proviene dal Libano si ? Se la minaccia di un uso terroristico di pc e tablet è fondata perché allora non adottare le stesse restrizioni previste per le pistole, le forbici, i coltelli o i liquidi e renderle universali senza introdurre differenziazioni all’apparenza incomprensibili ? Che senso ha nell’epoca della globalizzazione della mobilità adottare provvedimenti così parziali ? Se è vero che l’Isis ha inventato un modo per riempire i tablet o i pc portatili di esplosivo perché sarebbe diverso portarli in cabina o metterli in stiva ? Non ci meritiamo forse di saperne qualcosa di più e quindi avere gli elementi per poterci ragionare con più buon senso ? 
Questa ultima decisione statunitense, poi reiterata in Europa senza stare lì a meditare più di tanto, sembra la fotocopia del provvedimento, preso a più riprese dalla stessa amministrazione, per vietare i visti di ingresso a tutti i cittadini di alcuni paesi mediorientali e africani ritenuti, a priori, fucine di terroristi. Il ragionamento che sta alla base delle decisioni e dei provvedimenti presi è lo stesso. Generalizzare senza badare al singolo individuo creando, nel contempo, una percezione generale priva di qualsiasi buon senso delle cose e dei fatti. Le generalizzazioni rappresentano un torto perché assimilano situazioni troppo diverse, perché creano e alimentano pregiudizi, perché fomentano divisioni e generano un solco tra ciò che deve essere la giusta punizione per chi ha  commesso (o vuol realmente commettere) un delitto e la presunzione di innocenza per chi non ha mai compiuto (ne ha mai solo pensato di commettere) certi fatti.  In altre parole, sono focolai di odio e disprezzo. 
Non so voi, ma personalmente in tanti miei viaggi all’estero spesso mi sono sentito appiccicare l’etichetta di “mafioso” per il solo fatto di avere un passaporto e un nome italiano. Mi è capitato in Europa, in Medio Oriente, in Asia e persino in Nord Africa. Una volta mi è capitato addirittura al banco dei controlli in arrivo all’aeroporto di Istanbul. L’addetto, un poliziotto, mi ha guardato e, leggendo ad alta voce il mio nome, ha poi sussurrato al collega che aveva a fianco con un sorriso beffardo “italiano, mafia”. Non si curò che non me ne accorgessi, anzi, volle proprio che sentissi quel suo giudizio.  Non c’è cosa che mi provochi più rabbia e ribrezzo quando devo viaggiare all’estero. Rabbia perché non è vero che tutti gli italiani sono mafiosi e ribrezzo perché nella mia stessa famiglia ci sono state persone, servitori dello stato, che hanno dato la vita per difendere gli ideali di onestà e di integrità. Tuttavia questo accade e siamo i primi a lamentarci e lagnarci di questo pregiudizio che vuole catalogarci tutti. Perché allora non capiamo che anche per gli altri vale lo stesso ragionamento di buon senso ?
C’è qualcosa nel messaggio di Papa Francesco che avvolge questo ragionamento, ma che pochi mettono in risalto. In ogni cosa che il Santo Padre dice e ci spinge a meditare viene dato risalto all’individuo, al singolo caso, alla particolarità dell’uomo singolo preso non come generico numero di una massa, ma come elemento unico di una moltitudine. Questo ragionamento, non assolutamente nuovo nella dottrina della Chiesa e nel magistero dei passati pontefici, è un elemento ancorato al Vangelo e all’insegnamento di Gesù Cristo che la nostra società moderna ci vuol far scordare. Se si prende la briga di leggere i tanti episodi della vita di Gesù, allora ci si accorge che, quando il Messia ha avuto a che fare con gli uomini del suo tempo, non ha mai generalizzato ma, al contrario, ha sempre cercato di scavare all’interno della personalità di ogni individuo. Lo ha fatto persino sulla croce, dove, davanti alle parole dei due ladroni, non ha generalizzato sulla categoria di appartenenza dei suoi compagni di crocefissione, ma ne ha esaltato l’individualità, il sentimento, la volontà, la diversità della fede e del comportarsi. 
 Questo è l’atteggiamento giusto che, invece, stiamo sempre più perdendo di vista. Oggi siamo sempre più spinti a generalizzare e, di fronte alle paure e ai timori di ciò che non riusciamo a signoreggiare, questo ci porta a perdere la capacità di discernere le cose con il semplice buon senso. Tutto ciò che ci passa davanti deve essere o bianco o nero. Non abbiamo posto, come ci ha ricordato più volte lo stesso Papa Francesco, per le sfumature di grigio che, invece, esistono e meritano, tutte, di essere soppesate e valutate prima di emettere etichettature o giudizi senza appello.
Molti italiani sono mafiosi, ma non per questo lo sono gli italiani. Molti islamici sono terroristi, ma non per questo lo è l’Islam. Molti europei sono anti semiti, ma non per questo lo è l’Europa. Molti statunitensi sono isolazionisti, ma non per questo lo sono gli Stati Uniti d’America. Dobbiamo ripartire da qui, dal genuino buon senso che non si sposa con la demagogia spicciola e frettolosa di chi vuole propinarci soluzioni semplici e preconfezionate.  Dobbiamo usare quel necessario buon senso nelle cose di tutti i giorni che ci può solo aiutare a rendere il nostro mondo un po’ meno orientato ad alzare i muri di cemento e le barriere dei pregiudizi, e sempre più  disposto a gettare ponti che, seppur provvisori e traballanti, possano comunque assicurarci l’approdo sicura sulla riva opposta senza bagnarci troppo.
Il Sismografo