martedì 14 febbraio 2017

Pentimento e desiderio del bene



Un commento del cardinale Coccopalmerio all’ottavo capitolo di «Amoris laetitia». 

La presentazione. È stato presentato il 14 febbraio alla Radio Vaticana il piccolo libro del cardinale presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi Il capitolo ottavo della Esortazione apostolica postsinodale «Amoris laetitia» (Città del Vaticano, Libreria editrice vaticana, 2017, pp. 51, 8 euro). Pubblichiamo in questa pagina il testo della presentazione.


(Maurizio Gronchi) Il pregio principale della lettura guidata del capitolo ottavo di Amoris laetitia del cardinale Francesco Coccopalmerio è di far parlare il documento, lasciando emergere ciò che a un rapido sguardo fin troppo sbrigativo rischia di venir trascurato, se non sacrificato o ancor peggio travisato, come talvolta è avvenuto. Con asciutta precisione e chiarezza essenziale, il canonista mostra che non sono necessarie acrobazie per cogliervi la novità pastorale nella continuità della tradizione dottrinale della Chiesa. I fondamenti della teologia del matrimonio sono uniti, senza confusione, con quelli della teologia morale; il profilo ideale della famiglia cristiana è distinto, senza separazione, dalla saggezza pastorale rivolta a quanti hanno sperimentato il fallimento matrimoniale.
L’acribia con cui viene commentato il documento pontificio mostra in modo limpido in quale maniera sia sempre necessario interpretare i testi magisteriali: non per dubitarne, ma per comprenderli e accoglierli.
I primi tre capitoli pongono le basi per l’interpretazione teologica, che si svolge nei tre successivi. Dapprima si mette in luce la certezza della dottrina della Chiesa su matrimonio e famiglia; l’atteggiamento pastorale della Chiesa verso le persone in qualche situazione “irregolare”; le condizioni soggettive di coscienza di queste persone e il problema della loro ammissione ai sacramenti, con metodo espositivo semplice: breve introduzione, testo di Amoris laetitia, conclusione schematica.
L’autore è consapevole della difficoltà di capire con esattezza la questione della connessione tra le condizioni soggettive o di coscienza delle persone nelle diverse situazioni non regolari e l’accesso ai sacramenti. Alla luce del n. 301 del documento, sui condizionamenti e le circostanze che attenuano la responsabilità soggettiva — tali da impedire di formulare un giudizio di peccato mortale, da non permettere «di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa» — emerge la posizione chiara del cardinale relativa alla coscienza che le persone hanno della loro situazione illegittima e delle difficoltà a uscirne. «Il testo, dunque, afferma che le persone delle quali si parla sono coscienti “dell’irregolarità”, sono, in altre parole, coscienti della loro condizione di peccato (…) si pongono il problema di cambiare e quindi hanno l’intenzione o, almeno, il desiderio di cambiare la loro condizione» (pp. 20-21).
Questo argomento è in effetti poco sottolineato da altri. Si fa qui presente la serietà della coscienza di coloro che vivono in una unione non sacramentale: sanno di non vivere la pienezza dell’amore di Cristo, e ne soffrono. Questo punto è decisivo anche per la possibilità di accedere ai sacramenti da parte di coloro che non riescono ad astenersi in modo completo dai rapporti coniugali (cfr. Familiaris consortio, 84). Interrompere l’intimità della vita coniugale, col rischio di compromettere il bene dei figli (secondo Gaudium et spes, 51, citato nella nota 329 di Amoris laetitia), ad alcuni può sembrare inadeguato. In verità — scrive Coccopalmerio — «è una indicazione data dal concilio per situazioni di matrimonio, in altre parole di unioni legittime, mentre è applicata dalla Esortazione Apostolica a casi di unioni, almeno oggettivamente, non legittime. Credo, però, che tale differenza non sia rilevante per la correttezza della suddetta applicazione» (p. 24), ovvero di prendere questa decisione senza una nuova colpa.
Di conseguenza, la tanto discussa interpretazione della nota 351 viene così chiarita: «La Chiesa, dunque, potrebbe ammettere alla Penitenza e alla Eucaristia i fedeli che si trovano in unione non legittima, i quali però verifichino due condizioni essenziali: desiderano cambiare situazione, però non possono attuare il loro desiderio. È evidente che le condizioni essenziali di cui sopra dovranno essere sottoposte ad attento e autorevole discernimento da parte dell’autorità ecclesiale. Verissimo, infatti, si rivela, specialmente in queste occasioni, il ben noto principio: Nemo iudex in causa propria» (p. 27). L’autore sceglie di «valutare teologicamente la eventuale ammissione di un fedele ai sacramenti della Penitenza e della Eucaristia» e aggiunge: «Credo che possiamo ritenere, con sicura e tranquilla coscienza, che la dottrina, nel caso, è rispettata» (p. 28). Infatti, la dottrina rispettata è quella dell’indissolubilità del matrimonio, perché tale condizione è riconosciuta come non conforme al Vangelo; la dottrina del sincero pentimento: si ha la coscienza del peccato oggettivo e il proposito di cambiamento, seppur al momento non attuabile; infine la dottrina della grazia santificante: per accedere all’eucaristia è sufficiente il proposito del cambiamento. Conclude perciò il cardinale: «Ed è esattamente tale proposito l’elemento teologico che permette l’assoluzione e l’accesso all’Eucaristia, sempre — ripetiamo — in presenza dell’impossibilità di cambiare subito la condizione di peccato» (p. 29).
Riguardo al tema del proposito ci permettiamo di aggiungere una preziosa indicazione contenuta nella nota 364 dell’esortazione, ove si richiama una raccomandazione di Giovanni Paolo II ai confessori: si tenga conto che «la prevedibilità di una nuova caduta “non pregiudica l’autenticità del proposito”». Merita ascoltare il passaggio completo della lettera pontificia al cardinale Baum (22 marzo 1996): «Se volessimo appoggiare sulla sola nostra forza, o principalmente sulla nostra forza, la decisione di non più peccare, con una pretesa autosufficienza, quasi stoicismo cristiano o rinverdito pelagianismo, faremmo torto a quella verità sull’uomo dalla quale abbiamo esordito, come se dichiarassimo al Signore, più o meno consciamente, di non aver bisogno di Lui. Conviene peraltro ricordare che altro è l’esistenza del sincero proponimento, altro il giudizio dell’intelligenza circa il futuro: è infatti possibile che, pur nella lealtà del proposito di non più peccare, l’esperienza del passato e la coscienza dell’attuale debolezza destino il timore di nuove cadute; ma ciò non pregiudica l’autenticità del proposito, quando a quel timore sia unita la volontà, suffragata dalla preghiera, di fare ciò che è possibile per evitare la colpa».
Dal quarto al sesto capitolo, il commento del cardinale Coccopalmerio affronta il problema della relazione tra dottrina e norma, in generale e in particolare, alla luce dell’ontologia della persona, nella quale «possiamo distinguere due tipologie di ontologia della persona»: quella costituita dagli elementi comuni, che ha la caratteristica di essere generale e astratta, e quella degli elementi singolari, che considerano la realtà concreta di questa persona. Tenendo conto più della seconda che della prima, ci si rende conto «di quegli elementi che in qualche modo limitano la persona, soprattutto nella capacità di capire, di volere e perciò di agire» (p. 35), che Amoris laetitia chiama condizionamenti, circostanze attenuanti, fragilità. Il rispetto dell’ontologia concreta di ogni persona ha delle conseguenze pastorali ben evidenziate dall’esortazione: la legge della gradualità, la valorizzazione del bene possibile, la non immediata imputabilità di coloro che non adempiono la legge, e perciò non possono essere giudicate. Lungo questa saggia strada pastorale occorre procedere verso l’integrazione nella vita ecclesiale, che comporta una «molteplice ministerialità e l’esercizio della carità fraterna» (p. 45).
Nel capitolo conclusivo, l’autore chiama «ermeneutica della persona» quella che ritiene la prospettiva centrale di Papa Francesco, il quale «valuta la realtà attraverso la persona o, ancora, mette innanzi la persona e così valuta la realtà. Quello che conta è la persona, il resto viene di logica conseguenza. E la persona è un valore in sé, a prescindere per tale motivo dalle sue peculiarità strutturali o dalla sua condizione morale» (p. 47). In questa prospettiva va letta la ricerca della pecora perduta da parte del pastore, superando ogni forma di emarginazione. Ma «se il Papa non emargina chi sbaglia, non va questo atteggiamento a scapito dell’integrità della dottrina? Accogliendo il peccatore, giustifico il comportamento e sconfesso la dottrina?» (p. 49). La risposta dell’autore è decisamente negativa.
A conclusione della nostra presentazione potrebbe essere utile ricordare che la questione dell’inadeguata opposizione tra dottrina e pastorale ha radici antiche. Oggi, come ieri, siamo sollecitati dalla medesima questione. Il Vaticano II va inteso in modo pastorale o dottrinale? Lo stile e l’insegnamento pastorale di Papa Francesco costituisce un vero apporto dottrinale? La risposta che proviene dalla tradizione cristiana non conosce l’alternativa, ma soltanto l’armonica integrazione tra le due dimensioni costitutive della trasmissione della fede: la novità nella continuità, tra distinzione senza separazione e unione senza confusione. Come conferma anche questo contributo del cardinale Coccopalmerio con il suo piccolo e importante volume.
L'Osservatore Romano