venerdì 10 febbraio 2017

Dottorato ecumenico a Roma: Christoph Markschies



-Alla scoperta di un monaco agostiniano (Christoph Markschies)
-Il Corpo di Dio (Manlio Simonetti)

Dottorato ecumenico a Roma. Il 10 febbraio all’Augustinianum è stata conferita a Christoph Markschies dell’università Humboldt di Berlino la laurea honoris causa in scienze patristiche della Pontificia università Lateranense. «La ringraziamo — ha detto il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei cristiani — di volerci aiutare a purificare le nostre memorie storiche, a riscoprire comuni ascendenze spirituali e a confrontarci con quella che Papa Benedetto ha definito “la sfida spirituale e teologica” che rappresenta per noi cattolici “la persona e la teologia di Martin Lutero”». In questi casi, in conformità all’antica tradizione dell’ospitalità romana, ha continuato Koch, «l’arrivederci prevede il nobile munus a ricordo della munificenza dell’ospitante. Noi non disponiamo d’oro, ma di un dono più prezioso: è una specifica memoria comune che lega la sua cattedra di Berlino alla Biblioteca Vaticana qui a Roma». Un regalo ad personam, dal grande valore simbolico.
«Nel primo dopoguerra — ha continuato il cardinale — in un periodo di grave difficoltà per il suo paese e per le istituzioni scientifiche della sua capitale, il grande patrologo Adolf von Harnack, di cui lei è degno successore, coltivò un carteggio con l’allora prefetto della Biblioteca Vaticana, il cardinale Giovanni Mercati. Mi permetto di offrirgliene una copia, con una lettera del cardinale Raffaele Farina, successore emerito del cardinale Mercati, che condivide con lei l’onore del dottorato honoris causain scienze patristiche conferitogli dall’Augustinianum nel 2009». In realtà, ha proseguito Koch, la correttezza storica non consentirebbe d’iscrivere questo carteggio nella storia dell’ecumenismo inteso nel senso abituale del termine, «ma che cosa dà senso alle parole? Noi crediamo che a inverarne il significato sia soprattutto la libertà dello spirito che vi si esprime. E non è fors’anche questa libertà interiore, testimoniata nel carteggio da due grandi uomini di Chiesa e di scienza, una particella costitutiva della nuova, vissuta ecumene che oggi ci riunisce?».
Da sempre, ha ribadito il teologo evangelico Volker Henning Drecoll, Markschies cura i contatti ecumenici, sia a livello personale sia istituzionale. «Un amore particolare — ha continuato — lo lega a Roma (e in particolare a Santa Maria Maggiore). Per lui la teologia evangelica non deriva dalla delimitazione e dall’accentuazione di un presunto carattere specificamente luterano, ma dalla frequentazione, nella riflessione, di una comune tradizione e dalla convergenza rispettosa sulla comune domanda relativa all’unico Dio e a suo Figlio. E sotto il profilo ecumenico la patristica è una scienza particolarmente rilevante, non perché mostrerebbe un’identità unitaria, preconfessionale del cristianesimo, ma perché occuparsene orienta verso i presupposti e le condizioni di contorno, verso le trasformazioni culturali e teologiche che hanno plasmato l’identità plurale del cristianesimo, a partire dalle quali può nascere uno sguardo nuovo sulla propria Chiesa e la propria devozione». Pubblichiamo uno stralcio della lectio magistralis del festeggiato e un brano tratto dalla laudatio svolta da Manlio Simonetti.

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Alla scoperta di un monaco agostiniano
di Christoph Markschies 
L’odierno conferimento del dottorato honoris causa in scienze patristiche è un onore che mi ha profondamente toccato e commosso. Già il fatto di ottenere questo riconoscimento dal più importante istituto internazionale di ricerca in ambito patristico rappresenta molto di più di quanto avrei potuto aspettarmi in vita mia. Che poi una facoltà romana nell’anno 2017, cioè in occasione del cinquecentesimo anniversario della Riforma, conferisca a me, patrologo evangelico, il dottorato honoris causa mi ha lasciato privo di parola ed infinitamente grato di un tale, grande segno di comunione ecumenica. Un collega cattolico mi ha detto alcuni giorni fa: «Questo è il tuo primo autentico dottorato, il primo la cui validità sia davvero riconosciuta dal diritto canonico».
E poi la circostanza che lei, venerato cardinale Koch, abbia voluto intervenire con un suo personale saluto è una prova che occuparsi dei padri della Chiesa secondo i canoni della rigorosità filologica e storica può assumere al contempo il significato di prestare un servizio all’unità della Chiesa — come può assumerlo la riflessione in profondità sulle origini della Riforma.
Ed egualmente toccato e commosso mi ha la presenza di colui che ha tenuto la laudatio. Chi lavora nella mia disciplina non può non ammirare le numerose, imponenti edizioni, le traduzioni con commento e gli altri contributi scientifici del professor Manlio Simonetti. Tra i volumi scritti dal professor Simonetti che occupano un’intera, particolare sezione della mia biblioteca personale vi è la sua prima opera: gli Studi agiografici contenenti saggi su singoli acta martyrum. Questo volume venne pubblicato nel 1955, quando i miei genitori non erano ancora nemmeno sposati. I suoi lavori sulla gnosi hanno rappresentato uno stimolo per gli studi preparatori della mia tesi dottorale. La sua magistrale monografia sulla disputa trinitaria pubblicata con il titolo de La crisi ariana del iv secolo mi ha accompagnato nella fase di stesura del mio saggio di libera docenza. Senza l’Origene esegeta e la sua tradizione non potremmo oggi curare l’edizione delle opere esegetiche di Origene all’accademia delle Scienze di Berlino. Il fatto di essere lodato da questo studioso che ha accompagnato e contribuito a formare la mia vita di patrologo riveste per me un profondo significato ed uno stimolo ad attenermi, entro i limiti del possibile, ai parametri di elevata qualità definiti dal professor Simonetti.
Una disputa su Lutero è sempre stata e continua ad essere anche una disputa sull’adeguata interpretazione di Agostino. Questa considerazione ci consente oggi di guardare con maggior distacco ad alcune dispute del sedicesimo secolo. Oggi però, dopo tanti secoli e di fronte alle sfide drammatiche che il cristianesimo si trova ad affrontare all’inizio del XXI secolo, le diverse interpretazioni del padre della chiesa nordafricano possono forse essere concepite come trasformazioni, di volta in volta indipendenti, della sua teologia. Esse, non senza un certo sforzo, si possono organizzare in maniera così complementare, da consentire di superare, una volta per tutte, le conseguenze dello scisma verificatosi nella chiesa occidentale.
Mi sembra chiaro che questi sono sogni da patrologo. Sono comunque così realistico da non ritenere che determinate posizioni sostenute nell’ambito della mia disciplina — soprattutto quelle relative al significato fondamentale che detiene Agostino per la teologia di Lutero e di altri riformatori — non costituiscono una prospettiva ermeneutica tale da consentire l’apertura di tutte le porte chiuse ad una riconciliazione ecumenica. In tempi caratterizzati da una problematica specializzazione della scienza e di riflesso anche della teologia e della patristica si dovrebbe compiere un particolare, ulteriore sforzo di evitare valutazioni di carattere generico ed a fortiori attacchi dilettantistici nei confronti di altre confessioni. Se oggi fossi riuscito a dimostrare loro che il lavoro di un patrologo che fa quanto è richiesto dal suo ufficio — cioè identificare e descrivere le tracce della recezione e della trasformazione dell’immagine di Agostino avvertibili nell’ordine degli eremiti agostiniani del sedicesimo secolo — potrebbe essere d’aiuto nel promuovere nell’anno giubilare della Riforma 2017, perlomeno per un tratto del cammino, l’avanzamento dell’unità dei cristiani, allora riterrei d’aver potuto esprimere la mia modesta riconoscenza per il conferimento di un grande onore che tanto mi ha commosso. Il cardinale Kasper si esprime nei seguenti termini: «Abbiamo bisogno di un ecumenismo recettivo, disposto ad apprendere gli uni dagli altri». Se studiamo insieme Agostino e se studiamo insieme il monaco agostiniano Lutero, allora il dottore della chiesa ci si presenterà per alcuni punti sorprendentemente nuovo, e per altri sorprendentemente estraneo, ma interpretabile da una nuova prospettiva. Allora non avremmo solo imparato gli uni dagli altri, ma anche imparato insieme. Che ora possa imparare insieme a loro che io, come teologo evangelico dotato di un nihil obstatromano presente tra di loro, con un vero dottorato, come diceva il mio collega, è quanto mi consentirà di impegnarmi anche in altre sedi a praticare ancor più il nostro apprendimento comune.
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Il corpo di Dio  
di Manlio Simonetti 
Christoph Markschies è essenzialmente uno storico della chiesa antica, tutt’altro però che esclusivamente. Basta soltanto scorrerne l’imponente bibliografia, per rilevare che, soprattutto nella qualità di pastore evangelico, il suo ambito di ricerca storico-religiosa è di molto dilatato, fino a interessarsi di problemi quanto mai attuali quali l’interrogativo se il monoteismo rappresenti oggi un pericolo, o a criticare la dialettica deformatio-reformatio, che è dire la convinzione, tuttora ben radicata nei protestanti, che la Riforma abbia posto fine a un lungo periodo di decadenza della Chiesa iniziato già al tempo di Costantino. In questo ambito mi è apparso di singolare importanza l’ampio studio in cui Markschies, in vista delle celebrazioni per la ricorrenza, nel 2017, del famoso episodio dell’affissione, da parte di Lutero, delle novantacinque tesi sulla porta della chiesa di Wittenberg, si chiede se la chiesa evangelica sia cattolica, dove, al di là del voluto bisticcio, il termine è assunto nel significato, corrente in età antica e medievale, di universale, e risponde affermativamente, osservando che, alla luce della comune professione di fede apostolica, «la chiesa evangelica non è soltanto vecchia di cinquecento anni ma è parte legittima di una chiesa di Gesù Cristo che conta circa duemila anni».
Solo qualche mese fa è stato pubblicato del nostro autore un volume di inusitata ampiezza (ben novecento pagine di grande formato), intitolato Gottes Körper (“Il corpo di Dio”). Il sottotitolo chiarisce che il volume tratta delle antiche concezioni di Dio in ambito giudaico cristiano e pagano, perciò un argomento assolutamente comprensivo. L’argomento è di singolare impegno e importanza, in quanto da una parte potremmo dire che sempre e dovunque, a elevato livello di cultura, Dio è stato concepito, sì, spesso come persona ma sempre privo di corpo, mentre i miti greci, l’Antico Testamento e a volte anche la tradizione cristiana, dove il problema è complicato dall’incidenza dell’incarnazione di Cristo, ci presentano Dio in forma più o meno apertamente antropomorfa, il che implica anche, spesso per non dire quasi sempre, la sua corporeità: di qui un lungo contrasto, massimamente impegnativo, per cui qualcuno è giunto, in età moderna, ad affermare che, se si toglie da Dio tutto ciò che è corporeo, resta un niente.
Markschies inizia il suo lungo percorso accennando alla polemica contro l’antropomorfismo di Dio esemplificando variamente da Maimonide a Tomaso d’Aquino, a Kant e genericamente alla tradizione platonica; poi entra più direttamente in argomento presentandoci l’antropomorfismo biblico, contro il quale si reagì polemicamente ad Alessandria mediante l’interpretazione allegorica dei testi incriminati (Aristobulo, Filone). Anche nell’ambito della filosofia greca rileviamo da una parte la polemica di Senofane e di Platone contro la concezione corporea di Dio, ma di contro il materialismo di stoici ed epicurei, donde una polemica che, quando taccia gli antropomorfiti di essere ignoranti, non vuole tener conto del supporto filosofico di tale concezione. Identica situazione in ambito cristiano, dove alla concezione di Dio incorporeo proposta dagli alessandrini Clemente e Origene fa riscontro quella di Dio corporeo proposta da Melitone di Sardi; e anche qui è in gioco l’influsso del materialismo stoico, che ha condizionato la concezione di Dio in Tertulliano, per il quale lo spirito, che è dire la sostanza divina, è un corpo sui generis. In complesso anche in ambito cristiano si riscontra la dialettica Dio incorporeo-corporeo, dove la seconda opzione, pur se più diffusa a livello culturalmente basso, poteva contare anche sul supporto filosofico che abbiamo detto.
Se i giudei e i primi cristiani rifiutavano, pur con molteplici eccezioni, la rappresentazione figurata di Dio, non era certo lo stesso in ambito pagano, dove la rappresentazione statuaria della divinità era considerata di pubblica utilità, in quanto era oggetto di culto nei templi, favorendo in modo evidente la concezione di un Dio corporeo. In questo senso operava anche la fluidità, in ambito pagano, tra la concezione di Dio e quella dell’uomo, sì che Dio poteva essere considerato anche come un uomo immortale. Favorivano questa concezione anche l’occorrenza dell’epifania del dio in immagine umana, in complesso tutta l’attività variamente connessa con il culto templare e la generalizzata convinzione che il dio fosse in qualche modo presente e attivo nella statua che lo rappresentava. In questa problematica era coinvolto anche il rapporto, nell’uomo, di anima e corpo, in quanto la diffusa opinione della natura divina dell’anima si ripercuoteva in certa misura sulla valutazione del corpo, dato che soltanto in ambiente culturalmente elevato le due componenti dell’uomo erano tenute ben distinte una dall’altra. A maggior ragione era implicata in questo contenzioso la concezione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio, dal momento che solo a livello filosoficamente formato veniva chiaramente affermato che la somiglianza dell’uomo con Dio non implicava il suo corpo.
In sostanza si può sintetizzare che soltanto dove era prevalente l’influsso del platonismo appariva limpida la concezione dell’incorporeità di Dio, perché la concezione della corporeità di Dio era diffusa tutt’altro che soltanto a livello culturalmente modesto. Si pensi sia alla larga diffusione di questo concetto nell’antica mistica giudaica, convinta che il corpo di Dio fosse addirittura misurabile, ovviamente di straordinaria grandezza, sia alla crisi antropomorfita di fine iv e inizio v secolo in Egitto, dove si ebbe a constatare che quasi tutti i monaci erano ben convinti della corporeità di Dio. In ambito specificamente di cultura e tradizione greca, dove l’ideale di perfezione si compendiava nella bellezza, è facile capire quanto facilmente questo concetto favorisse, sia pur indirettamente e fatti salvi tutti i possibili chiarimenti, la concezione che Dio, in quanto bellezza assoluta, non poteva non essere fornito di forma, quindi di corpo. Come è stato detto, la convinzione che Dio è corpo dimostra sia la verità dei miti sia la necessità della demitizzazione. 
L'Osservatore Romano