venerdì 6 gennaio 2017

Pensieri a voce alta

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di Costanza Miriano
Provo sempre disagio, come tanti, tutti forse, quando vedo in televisione – a volte mi è successo anche di essere io quella che le metteva in video – immagini di persone straniere ammucchiate in condizioni non dignitose, alla ricerca di una vita migliore. Provo disagio, un vago senso di colpa, che di solito liquido con un frettoloso “ma io che posso fare?”. Vediamo.
C’è un’altra risposta che ci vuole seguire Cristo si può dare?
Come si pone un cristiano di fronte alle onde di persone che vengono da lontano nel proprio paese in cerca di fortuna, non profughi dalle guerre vere, non le guerriglie intendo (quelli vanno accolti a qualsiasi costo, come in ogni caso in cui l’alternativa è la morte), ma persone che come è normale cercano solo di elevare la propria condizione di vita trasferendosi in zone in cui oggettivamente il livello medio è migliore?
A parte che sarebbe molto interessante capire dove prendano i miei colleghi giornalisti la notizia che queste persone pagherebbero migliaia di dollari per i viaggi della speranza, anche quando provengono da paesi in cui il reddito pro capite è di un dollaro al giorno. A parte che sarebbe interessante capire la questione del racket, a parte molti molti punti oscuri nella vulgata (quanto costa assisterli, cosa vuol dire accoglienza dignitosa, come si può vivere in un contesto culturale estraneo cercando solo di trarne qualche vantaggio materiale ma disinteressandosi o addirittura disprezzando il resto), torno alla domanda centrale. Come si pone un cristiano rispetto a tutto questo?
Gesù quando spiega cosa vuol dire amare il prossimo fa l’esempio del buon samaritano. Io non sono una biblista, ma ho capito qualche semplice cosa. Il samaritano va da Gerusalemme a Gerico. Sta facendo i fatti suoi, sta curando i suoi affari, e se Gesù lo prende a esempio evidentemente costruire delle cose nel mondo è una cosa buona, curare i propri affari – onestamente, è chiaro – vuol dire costruire il regno di Dio anche su questa terra. Imprese che funzionano sono un bene per tutti, generano lavoro, sono feconde, fecondano il mondo e permettono all’uomo di riprodursi, che è ciò che Dio ci ha invitati a fare nel giardino dell’Eden (la povertà dunque NON è un valore, i mezzi per fare le cose sono una grazia). Il samaritano incontra un uomo ferito. Lo incontra, non lo va a cercare. Però neanche distoglie gli occhi quando la necessità gli si presenta, e questa è sicuramente l’indicazione fondamentale. Anche noi, quando nelle nostre vite – e non guardando i tg dal divano – ci imbattiamo in una necessità, dobbiamo cercare di affrontarla in qualche modo. Ma come?
Il samaritano si carica il ferito perché in quel momento non c’è altro da fare, è un’emergenza. Poi però lo porta a un albergatore, si occupa delle sue prime necessità e, appena la prima emergenza rientra, paga di tasca sua l’albergatore perché faccia il suo lavoro. Gesù lo prende a esempio di amore per il prossimo, e mi ha sempre colpito questo fatto: il Signore ha scelto come esempio proprio lui, non ha preteso che lasciasse il suo lavoro, che stravolgesse la sua vita, che smettesse di essere quello che era, cioè un uomo che anche grazie al suo lavoro aveva la possibilità di soccorrere qualcuno in difficoltà. Possiamo essere più buoni di Gesù?
L’altra cosa che mi ha sempre colpito è che ha pagato un professionista perché facesse il suo lavoro. Questo è il punto centrale. La carità infatti non può essere improvvista, cialtrona, emotiva. La carità deve essere intelligente, organizzata, ben fatta. Deve prevedere una proiezione nel tempo – se il samaritano fosse rimasto per sempre con l’uomo ferito non sarebbe più stato in grado di soccorrere nessuno.
Allora, come si può fare una carità intelligente, organizzata, ben fatta nei confronti delle persone che vengono da noi in cerca di fortuna (e non è esatto chiamarli profughi, perché nella maggior parte dei casi non stanno scappando da guerre). Se è vero che pagano migliaia di dollari pur provenendo da paesi in cui si guadagna un dollaro al giorno, non si può trovare un modo più intelligente di far fruttare quelle somme? Ma soprattutto, se a muoversi dal paese di origine è una percentuale risibile della popolazione si è samaritani migliori aiutando quell’1% che lascia tutto e parte cercando di arrabattarsi in un paese e in una cultura estranei, con la sola idea di guadagnare soldi e tornare a casa, o aiutando chi rimane a casa magari anche per evitare che tanta gente parta?
Oggi davanti alla Scala Santa un uomo – probabilmente del Bangladesh o zone simili – scatarrava per terra, per la precisione vicinissimo ai miei piedi, vendendo rosari. Ho pensato che probabilmente disprezzava quel luogo e forse persino gli oggetti che vendeva. Ho provato dispiacere per lui, non avversione, davvero, ma dispiacere perché penso che vivere in una cultura estranea alla propria, con la sola idea diraggranellare qualcosa per scappare via, senza amare il proprio lavoro sia degradante per un uomo, soprattutto per un uomo. Diversa la questione di chi va a fare esperienze di lavoro arricchenti, scambi che possono insegnare qualcosa a entrambe le parti, benché non abbia affatto il mito dei cittadini del mondo – come auspicava la ex ministro Giannini, sognando generazioni di senza radici, senza famiglia, precari intellettuali pronti a scommettere tutto sul lavoro e senza alcuna tutela per la costruzione di una famiglia, ma questo è un altro tema.
Ecco, credo ci siano tante cose sulle quali ragionare senza farsi prendere dalla pancia. Allo stesso modo quando vedo lo zelo di certe persone tutte protese all’esterno della famiglia e magari distratte nei confronti delle necessità dei propri cari, penso che a volte la vulgata cattolica sulla carità sia un po’ approssimativa. La carità è anche sempre responsabile – così come l’apertura alla vita alla quale la madre Chiesa ci invita. La carità è stare nella storia che ci è data, che ci è chiesta. È rendere il mondo un posto migliore. Carità è anche costruire cose belle per Dio. Per esempio sono stata in una parrocchia a Prima Porta dove la preparazione del presepe vivente è costata sforzi di mesi. Una specie di città costruita da tutti i parrocchiani con chissà quali sforzi di tempo e anche risorse. Sarebbe stato meglio dare tutto ai poveri? No, perché quel presepe è per tutti, anche per i poveri, e fa a ogni uomo la carità più grande, aiutarlo ad alzare lo sguardo a quello che conta (e comunque la parrocchia soccorre anche tantissime necessità, perché il bene è diffusivo e le risorse offerte a Dio generano miracolosamente altra ricchezza).
Ecco, non è per prendere alibi, ma per ragionare un po’ a voce alta, per non farmi tirare dentro certi tic del politicamente corretto (tipo la proposta, fatta da quel famoso comico, come si chiama, Saviano, di nominare solo sindaci africani per risolvere i problemi del sud, perché ovviamente africano vuol dire necessariamente intelligente, preparato e onesto) che essendo ideologici non fanno tanto i conti con la realtà. Per cercare di capire come si può essere intelligenti nella carità. Una volta volevo accogliere un ragazzo molto molto problematico in casa, ma il mio padre spirituale me lo ha impedito dandomi dell’irresponsabile, perché era certo che avrei potuto mettere in pericolo i miei figli. Ho cercato di essergli vicina in un altro modo. Chissà se ci sono riuscita. Fare il bene è difficile, e comunque senza lo Spirito Santo nulla è nell’uomo, nulla senza colpa.