sabato 15 ottobre 2016

La libertà delle mani scosse



In tutte le società, la natura peculiare del dono è quella di obbligareMarcel Mauss, Saggio sul dono

La funzione più preziosa dei profeti non è la denuncia del male che ci appare già male, ma smascherare i vizi dentro quelle che chiamiamo virtù. È facile capire Isaia e solidarizzare con lui quando critica l’ingiustizia e i delitti dei potenti, molto più difficile capirlo e amarlo quando critica i doni. Difficile nel suo tempo, ancor più difficile nel nostro, quando abbiamo sacrificato i doni al business dei regali: «Chi di noi può abitare presso un fuoco divorante? Chi di noi può abitare tra fiamme perenni? Colui che cammina nella giustizia e parla con lealtà, che rifiuta un profitto frutto di oppressione, che scuote le mani per non accettare regali» (Isaia 33,14-15). Perché dovremmo rifiutare i regali se vogliamo abitare in una terra dal «fuoco divorante»?

Isaia, mettendo i regali a fianco dei profitti corrotti e dei delitti, ci sta dicendo che sbagliare il rapporto con i regali è qualcosa di estremamente grave, un errore che ci può far perire negli incendi delle nostre economie e delle nostre città. Cosa che sanno molto bene quegli imprenditori che hanno «scosso le mani» e non hanno accettato i regali delle mafie, e poi si sono ritrovati in mezzo agli incendi dei loro negozi, capannoni e case. Hanno salvato l’anima anche quando hanno perso la vita, perché sono stati capaci di camminare tra le «fiamme perenni», a testa alta e con dignità.
Il dono è una cosa molto seria. Talmente seria che quando la cristianità ha voluto scegliere l’icona del dono ha scelto un crocifisso. Il primo omicidio-fratricidio nasce da un dono rifiutato (quello di Caino). Il dono lo ritroviamo a fondamento delle civiltà, al centro delle famiglie e di ogni patto sociale, alla radice delle cooperative e di molte imprese, a cuore del mistero di chi si mette in cammino lasciando la sua terra per seguire solo una nuda voce.

Essendo cuore, centro, radice, il dono è silenzioso. Lo troviamo nelle cose più vere e normali della vita. È più facile che sia nelle nostre sette ore di lavoro ordinarie in ufficio che nella mezzora di straordinario che "doniamo" alla nostra impresa; più nelle mille parole che ci scambiamo ogni giorno che nelle poche che ci diciamo per accompagnare i regali di San Valentino; più nella fatica che facciamo per non dimenticare l’ultima preghiera, che nelle tante che recitiamo nei giorni facili dell’entusiasmo.

Il dono protegge la propria gratuità con un dispositivo naturale che lo fa sparire quando lo vogliamo isolare per appropriarcene, fosse anche per "donarlo". Anche per questa ragione nei luoghi dove si racconta la vita vera, troviamo poche parole sul dono. Nella Bibbia lo troviamo nell’Alleanza, nello shabbat, nelle regole sull’ospite e lo straniero, in molte pagine profetiche. Nella storia di Giuseppe, il fratello venduto come schiavo che diventa dono per i fratelli venditori. C’è nel buon samaritano, ma forse c’è di più in Simone di Cirene, che si ritrova per un tratto sotto una croce non sua. Forse i doni più grandi li facciamo, e li riceviamo, quando nei calvari della vita ci ritroviamo sotto croci non scelte e continuiamo a camminare, muti, compagni dei crocifissi.
La nostra civiltà parla molto di dono, ma lo conosce poco, perché lo vede dove non c’è e non lo vede dove si trova realmente. Conosce molto bene i suoi surrogati, i suoi tarocchi, le sue contraffazioni. Per disinnescarne la sua natura sovversiva perché radicalmente libera, lo ha contrapposto al doveroso, lo ha separato dai contratti, e così lo ha ridotto a cosa insignificante. Perché il dono vive solo nella promiscuità, mescolato con i prezzi e con la contabilità, dentro le fabbriche, nelle piazze, nelle aule dei tribunali. Se lo togliamo da questi luoghi meticci e impuri in cerca della pura gratuità, lo facciamo semplicemente morire.

Al di là di questo dono ci sono i regali, che sono una realtà varia, a volte importante e positiva, altre volte ambigua e pericolosa, diversa dal dono-gratuità. Una delle povertà del nostro tempo è stato, dapprima, confondere i regali con i doni, e poi ridurre il dono a regalo per farne uno dei business più grandi. Ad un certo punto, nell’aurora della modernità, la civiltà europea ha intuito che il dono vero era una esperienza troppo sovversiva e pericolosa per la politica e l’economia moderne. Ha preferito i "Leviatani" e le ’mani invisibili’, i contratti senza dono.

E così ha inventato la filantropia, i doni aziendali, gli sconti, gli sponsor, le donazioni delle imprese per curare le vittime che esse stesse generano, gli sponsor delle società dell’azzardo, gli ospedali per i bambini mutilati dalle guerre finanziati dai fabbricanti delle mine anti-uomo. 
Il regalo-dono crea un debito in chi lo riceve e lo accetta e un credito in chi lo fa. Possiamo, però, rifiutare i regali se non vogliamo diventare debitori del donatore, se non vogliamo creare in noi l’obbligo della riconoscenza e della restituzione. Non tutti e non sempre, però, siamo veramente liberi di rifiutare i regali che non vogliamo. Ci sono molti poveri, fragili e vulnerabili, che non sono nelle condizioni di rifiutare i regali dei potenti e dei padroni.

I sudditi non potevano respingere le regalie dei faraoni, pena la morte; il piccolo commerciante, isolato e terrorizzato per la vita dei suoi figli, non riesce a rifiutare il regalo del boss che gli dice: «Accettalo: verrà un giorno quando ti dirò io come sdebitarti». Ma per capire la radice profonda della critica dei profeti ai regali dobbiamo scavare di più, e arrivare alla falda profonda della lotta all’idolatria, che spiega molte tesi dei profeti che restano incomprensibili se ci fermiamo alla superficie. Isaia ce lo dice più volte nel suo libro (1,23; 5,23; 45,13), e lo ritroviamo chiarissimo in altri passaggi cruciali della Bibbia: «Il Signore, vostro Dio, ... non usa parzialità e non accetta regali» (Deuteronomio 10,17). 
Il regalo (la cui radice è rex/regis: regali del/al re) è uno strumento essenziale di ogni culto idolatrico, e anche delle pratiche larvatamente idolatriche che si nascondono nei sacrifici delle nostre religioni - non capiamo la novità del cristianesimo se non prendiamo molto sul serio la polemica radicale di Gesù di Nazareth verso i sacrifici. Il regalo-dono è, infatti, un elemento intrinseco della religione economica-retributiva, la cui critica spietata ha aperto, e non a caso, il libro di Isaia. Nei culti idolatrici, l’idolo è un grande creditore verso gli uomini. È titolare di un credito infinito, che può essere ridotto solo con offerte e sacrifici, ma mai estinto.

L’idolo è sempre affamato, divoratore voracissimo di regali, che per un po’ placano la sua fame e la sua ira se il "dono" ha un valore molto alto: la vita dei bambini o la propria. E come accade in tutti i rapporti tra creditori e debitori con debiti troppo grandi e non rimborsabili, si arriva un giorno a desiderare la morte del proprio creditore. Gli idoli vengono uccisi quasi sempre per il peso insostenibile del debito nei loro confronti – è così che la nostra civiltà ha decretato ed eseguito la "morte di Dio": prima ne ha fatto un idolo, ha poi sentito il peso di un debito troppo grande, e infine ha ucciso il suo idolo manufatto pensando di uccidere Dio.

La Bibbia non ha ridotto YHWH a idolo anche per poter eliminare il debito primordiale e infinito degli uomini verso la divinità - è questo, forse, il suo dono più grande. La creazione non ha acceso alcun debito in capo alle creature, perché è stata ed è solo e tutta eccedenza di amore. Ma nessuna fede può proteggere Dio dal diventare il grande debitore degli uomini.

Neanche il Dio biblico diverso può rifiutare i nostri regali: è lì, impotente, "costretto" ad accettare ogni nostra offerta e ogni nostro sacrificio. In questa impossibilità di rifiuto è più debole di noi. Non può impedire che in noi maturino crediti nei suoi confronti grazie ai regali che gli facciamo. Un debito non esigibile, ma – come il nostro debito pubblico – efficace nella storia, perché l’idea di Dio ha condizionato e condiziona le nostre norme sociali, il nostro senso di giustizia, la cultura della povertà. Nonostante Giobbe, Isaia, Gesù Cristo, è ancora forte la tendenza-tentazione di considerare il povero debitore e ,quindi, colpevole, e noi immuni dal dovere di fraternità nei suoi confronti - una cultura che oggi il capitalismo finanziario sta esasperando.
Nessuna religione e nessuna società è indifferente all’idea che gli uomini si fanno di Dio. Troppi poveri restano schiavi tutta la vita alimentando la speranza vana in un dio che li libererà grazie ai loro sacrifici. Troppi potenti si sono auto-proclamati funzionari di questi dei, riscossori di interessi su mutui creati al solo scopo di tenere i loro debitori in schiavitù.

La storia è una continua lotta tra chi inventa debiti e crediti per imprigionarci e chi li vuole cancellare per liberarci. I profeti sono tra questi liberatori e remissori di debiti: degli uomini e, ancor prima, di Dio. Sono uomini e donne che rifiutano i nostri regali per conto di Dio che non può rifiutarli, e così lo lasciano fuori dal turpe commercio della finanza morale.

I profeti sono i guardiani sulla porta del tempio per provare di impedirci di entrare con i metalli nelle nostre borse. Lo fanno con la forza fragile della loro parola, sapendo che non saranno ascoltati e che eluderemo i loro controlli. Ma sapendo anche che proteggendo YWHW dai nostri regali stanno generando la speranza non vana in "quel giorno", quando i poveri, finalmente liberati e liberi, potranno scuotere le mani: «Felicità perenne splenderà sul loro capo. Gioia e felicità li inondano, tristezza e pianto fuggono via» (Isaia 35,10).

l.bruni@lumsa.it