giovedì 4 agosto 2016

Il gesuita che insegnò ai cinesi l'arte di ricordare



di Simone Pallaga

«Nell’impatto con i più svariati fenomeni l’anima è pienamente in grado di registrarli e riconoscerli; li sa inoltre differenziare per poi immagazzinarli, a guisa di beni che si conservino in un magazzino. Ogniqualvolta se ne voglia far uso, ciascuna categoria di oggetti riemergerà in base all’occasione in successione ordinata, senza confusione alcuna» scrive Matteo Ricci tra il 1595 e il 1596. E forse ora è il momento di riprendere a studiare gli aspetti mnemotecnici del lavoro del gesuita maceratese alla pari di tutta la tradizione europea dell’arte della memoria.
Oggi questa facoltà umana non è più sulla breccia. Nemmeno a scuola si mandano più a mente poesie, capoluoghi, fiumi, paradigmi verbali. Tanto non serve più. Ormai registriamo tutto sui nostri device esterni. Smartphone, cloud, server raccolgono le informazioni che ci potrebbero servire evitandoci lo sforzo della memorizzazione. E glissiamo così sull’importanza della memoria e del suo esercizio per la conoscenza e la libertà dell’uomo. Ecco allora diventare un’opportunità di riflessione la prima traduzione italiana dal cinese, data ora alle stampe da Guerini e Associati, di Il castello della memoria (pp. 168; euro 16,50) di Matteo Ricci, il gesuita che tra Cinque e Seicento va alla scoperta del Celeste Impero del tempo dei Ming.
Cartografo, matematico, astronomo oltreché lessicografo e fondatore della sinologia, Ricci nasce a Macerata nel 1552 e non ha certo bisogno di grandi presentazioni. Da quando, nel 1582, Alessandro Valignano lo chiama a Macao in una piccola comunità di gesuiti comincia il suo lungo viaggio verso Pechino. Matteo Ricci si adatta al nuovo contesto assumendo i costumi dei bonzi e dei saggi confuciani, studia il cinese, scritto e parlato, al punto da maneggiarlo alla perfezione. Traduce testi della tradizione europea e compone addirittura dei trattati direttamente in cinese, come quello bellissimo sull’amicizia, al fine di portare alla luce le similitudini tra culture entrambe millenarie ma profondamente diverse.
Si tratta, il suo, di un imponente lavoro di mediazione culturale all’interno del quale si incastona Il castello della memoria. L’arte della memoria è un filone antico della cultura europea. Secondo la vulgata troverebbe origine tra il VI e V secolo prima di Cristo. «Un poeta occidentale – riporta Ricci nel trattato –, il nobile Simonide, un giorno si trovò a pranzo con parenti e amici in una sala. Gli ospiti vennero in gran numero. Uscito brevemente dalla sala, questa fu investita da un vento impetuoso e crollò. Tutti i commensali morirono schiacciati e i loro corpi furono talmente polverizzati che nessuno dei parenti fu in grado di riconoscerli. Ma Simonide si ri- cordò dell’ordine in cui erano seduti e in tal modo riuscì a ricordarli e a identificarli. Egli intuì così la mnemotecnica, che creò e lasciò in eredità ai posteri».
La tradizione verrebbe poi rilanciata da Aristotele e risale, attraverso il mondo latino fino a sant’Agostino, a san Tommaso e a Raimondo Lullo. Da lì, come ha raccontato splendidamente nel secolo scorso Frances Yates, riprende vigore in epoca rinascimentale con il Theatro di Giulio Camillo e Giordano Bruno.
A tale percorso carsico, seppure distaccandosi dagli afflati ermetici e magici, si accosta Ignazio di Loyola che nei suoi Esercizi spirituali fa riferimento alle “tre potenze dell’anima”, che nella tradizione scolastica sono la memoria, l’intelletto e la volontà. Il loro addestramento «costituisce – scrive la curatrice Chiara Piccinini – il metodo generale della meditazione ignaziana, in cui la memoria stimola l’intelletto perché induca al ragionamento e questo muova la volontà». Ecco la prospettiva lungo la quale si muove il gesuita di Macerata. Scritto per favorire i cinesi nell’apprendimento delle migliaia di ideogrammi della loro lingua il trattato serve anche da veicolo per farli avvicinarli al mondo cristiano. Ma il potenziamento della memoria, che deve essere quotidiano per non perderne la familiarità, non vale unicamente a favorire l’accumulo delle conoscenze. Esso diventa uno strumento per promuovere crescita e maturazione spirituale spingendo l’uomo a essere libero.
Per consolidarsi «l’apprendimento della mnemotecnica – ammonisce Ricci – consiste nell’attribuire l’immagine di una data cosa o di uno stato di cose dato a un preciso luogo in una successione ordinata». Da qui la denominazione di mnemotecnica per immagini. «Il suo segreto – continua il maceratese – non è null’altro se non l’immaginazione creativa stessa, che inizialmente si può praticare con un certo diletto e godimento, la creazione di luoghi per metà reali e per metà immaginari è per così dire il segreto dei segreti». Si devono così creare con la mente palazzi, castelli, pagode, progettarne gli interni in maniera adeguata per poi inserirci, associate ad immagini, le idee che vogliamo fare nostre.
Solo così, depositandole in noi, sarà possibile richiamarle alla mente alle bisogna per alimentare la potenza del ragionamento e sferzare la nostra volontà.
Avvenire