martedì 2 agosto 2016

Cristiani e islamici. Una sola preghiera



 La Repubblica 
(Vito Mancuso) Due giorni fa in diverse città di Francia e d’Italia alcuni imam e semplici fedeli musulmani hanno  partecipato alla messa cattolica, compiendo un gesto assolutamente inedito e direi persino  inimmaginabile. L’hanno fatto per testimoniare pubblicamente due cose: la solidarietà ai cattolici  per l’assassinio di padre Hamel e l’inequivocabile condanna del terrorismo che utilizza la religione.  Ma al di là della contingenza immediata alla base di questa nobile iniziativa, occorre porsi una  domanda: i cristiani e i musulmani possono davvero pregare insieme? Quello di domenica è un  evento autenticamente religioso e come tale reiterabile anche in futuro, o è un evento sociopolitico  compiuto in un contesto religioso? 
La mia tesi è che si tratta di un evento sociopolitico in un contesto religioso, e che come tale esso  non può diventare un evento religioso ripetibile nel futuro, se non sempre in via del tutto  eccezionale e con le medesime finalità sociopolitiche. 
Questo significa che musulmani e cristiani, o fedeli di altre religioni, non possono in alcun modo  rivolgersi insieme all’unico Dio? La risposta dipende da cosa si intende per preghiera e da come si  esercita il pregare. Se la preghiera è intesa come proclamazione della fede dottrinale è del tutto  evidente l’impossibilità strutturale di condurla insieme: cosa hanno in comune i fedeli che iniziano a pregare dicendo “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” e che così proclamano la loro fede in un Dio che è Trinità, con i fedeli che fanno del monoteismo assoluto l’essenza decisiva della fede? 
Finché si rimane al livello delle religioni istituite non è possibile un’autentica preghiera comune. Fu questa la ragione che nel 1986 portò Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la  Dottrina della Fede, a non partecipare al meeting interreligioso voluto da Giovanni Paolo II ad  Assisi. Non c’è infatti preghiera religiosamente connotata che non contenga sempre una particolare  teologia. Quando il cristiano dice “Padre nostro” si rivolge a Dio credendolo realmente tale, ma  questo è del tutto inaccettabile per un musulmano che tra i “99 bellissimi nomi di Allah” della sua  tradizione non ritrova l’appellativo padre. E non lo ritrova perché per l’Islam Dio non genera alcun  Figlio perché un rapporto di figliolanza minaccia l’assoluta alterità divina, così che i fedeli non  possono essere detti figli di Dio. 
Io penso però che il pregare insieme diventi possibile quando le religioni compiono un passo  indietro (o in avanti?) mettendosi al servizio della pura e nuda umanità alle prese con la fatica di  vivere. La vita è troppo grande per essere racchiusa da qualsivoglia religione, o da qualsivoglia  filosofia o teoria scientifica. Percepire tale eccedenza della vita significa poter sperimentare la  valenza antropologica della preghiera. 
Il verbo “pregare” viene dal verbo latino precor il cui infinito è precari, termine oggi molto diffuso  per designare chi è instabile e insicuro. La preghiera è quindi strettamente collegata con la  precarietà: si prega perché ci si sente precari, provvisori, non assicurati, in balìa di forza più grandi.  È la situazione sperimentata dagli esseri umani fin dai primordi: per questo non c’è mai stata civiltà  priva di riti e di liturgie. Vi sono persino religioni senza Dio, ma nessuna senza preghiera. La sensazione di precarietà è tanto più intensa oggi in Occidente dove i punti fermi della  convivenza sociale vacillano sempre più e non c’è istituzione politica, economica, culturale o  religiosa che sia esente dalla contestazione, e dove l’esistenza dei singoli è esposta al gelo del  nichilismo perché le argomentazioni tradizionali a sostegno del bene, della giustizia, del senso  appaiono ormai prive di forza. Non per questo però in Occidente si prega di più, anzi aumenta la  precarietà e diminuisce la preghiera. Ma la precarietà incapace di trasformarsi in preghiera  (trovando le parole mediante cui farsi invocazione, devozione, aspirazione, esame di coscienza)  genera ansia, vuoto interiore, assenza di significato. Ha scritto a questo riguardo Carl Gustav Jung:  «La mancanza di significato impedisce la pienezza della vita ed è equivalente alla malattia». Ecco  lo strisciante malessere del nostro tempo. 
Dicendo “nostro tempo” intendo includere anche i musulmani che vivono in Occidente perché  neppure essi possono essere esenti dallo spirito del tempo. La “morte di Dio” segnalata da Hegel  (1802), Nietzsche (1882) e Heidegger (1940) non riguarda solo il Dio cristiano ma ogni istanza di  trascendenza e con questo fenomeno anche l’Islam dovrà fare i conti; anzi, a mio avviso li sta già  facendo, perché solo così si spiega la frattura al suo interno tra novatori e integralisti. Esattamente cento anni fa, per la precisione l’11 giugno 1916, mentre prestava servizio nell’esercito austriaco sul fronte orientale della Prima guerra mondiale, Ludwig Wittgenstein scriveva: «Pregare  è pensare al senso della vita». Il pensare che qui è in gioco non è solo un’attività intellettuale ma  qualcosa di integrale: è pensiero che diventa vita e vita che diventa pensiero, e si pratica anche con  il corpo e il sentimento. Chi pensa così prega, e chi prega così pensa, ricercando un senso, una  direzione, un orientamento, aspirando a uscire dal disorientamento del nulla per ottenere una via su  cui camminare nella fatica dei giorni. 
Oggi siamo al cospetto di un’epoca molto vitale per le religioni. Il mondo è diventato un laboratorio che chiama le singole religioni con i loro riti e le loro liturgie a mettersi al servizio di questa  dimensione esistenziale della preghiera, assai più importante della preghiera come espressione della fede dottrinale. E in questa prospettiva, senza attendere un futuro atto terroristico ma semmai  contribuendo a prevenirlo, sarebbe bellissimo che almeno una volta all’anno i fedeli delle diverse  religioni si incontrassero davvero con finalità spirituale, meditando umilmente, nel più perfetto  silenzio, di fronte all’immensità della vita e al suo mistero. Sperimenterebbero così l’inadeguatezza  di tutte le loro dottrine e i loro precetti, e questa esperienza di vera trascendenza è la via privilegiata  per la pace e il mite sorriso che dimora nel cuore di ogni autentica persona spirituale.

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In cammino di pace da credenti. Con pazienza e sapienza 
 Avvenire 
(Marco Impagliazzo) Ci si chiede da tempo come affrontare il terrorismo con la sua imprevedibile ed efferata violenza. È una domanda che attraversa le società europee che, specie in Francia, sono colpite violentemente e ripetutamente: i cittadini vivono la vita di ogni giorno, (...)


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Homélie de la célébration des funérailles du Père Jacques Hamel 
Diocèse de Rouen 
(+Dominique Lebrun, Archevêque de Rouen) Dieu est impartial, dit l’apôtre Pierre : Il accueille, quelle que soit la nation, celui qui le craint et dont les œuvres sont justes. --Chers amis, Le prêtre Jacques Hamel n’a plus à craindre Dieu. Il se présente à lui avec ses œuvres justes. Bien sûr, nous ne sommes pas juges du cœur de notre frère. Mais tant de témoignages ne peuvent tromper ! Le Père Jacques Hamel avait un cœur simple. Il était le même en famille, avec ses frère et sœurs, avec ses neveux et nièces, au milieu de sa ville avec ses voisins, dans sa communauté chrétienne avec les fidèles.