mercoledì 23 marzo 2011

A Dio tutto è possibile!

https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh0IkN8CYAj62COj_tSQR52nYBWCWp-S9L36KkQ_95W3fy8UCv6Ban08zcGV9UZhVvE35RsLeR4CzC6TGmrCrVE-zXfg2p3xDgwsZFpjwdFEW7_iDyFefjcpMnhF8BWVjoFmedUGpdvmPM/s400/spiderman_6.jpg
Propongo questa sera 23 marzo la lettura dei canoni 5 e 6 del Concilio di Cartagine del 418, il cui contesto, costituito dalla controversia pelagiana, ho illustrato nel post pubblicato ieri ("Senza la Tua Grazia, nulla c'è nell'uomo").
Dei pelagiani Agostino dice che sono «nemici della grazia di Dio, nel senso che credono che l’uomo possa senza di essa ubbidire a tutti i comandamenti divini» (De haeresibus 88, 2).
Pelagio, di fronte a chi lo rimproverava di non riconoscere così alcun ruolo di aiuto alla grazia di Dio – «Se fosse vero che l’uomo può senza di essa ubbidire a tutti i comandamenti divini, perché il Signore avrebbe detto: “Senza di me non potete far nulla”?» (ibidem) –, sembrò piegarsi, ma non fino al punto da «premettere la grazia di Dio al libero arbitrio, bensì a esso sottomettendola con una scaltrezza menzognera [infideli calliditate], dicendo che essa è data agli uomini perché ciò che a loro viene ordinato di fare con il libero arbitrio, lo possano adempiere più facilmente con la grazia. Dicendo “possano più facilmente”, lasciò intendere che, senza la grazia, gli uomini, benché più difficilmente, possono tuttavia mettere in pratica i comandamenti di Dio» (ibidem).
Con una scaltrezza ancora più menzognera, gli odierni pelagiani («Pelagio ha oggi molti più seguaci di quanto non sembri a prima vista», diceva il cardinale Ratzinger al Meeting di Rimini del 1990) sostengono, o meglio “lasciano intendere” che la grazia è un “a priori” comunque già dato. È Goulven Madec, grande interprete di Agostino, ad assimilare questa concezione a quanto di più proprio c’è nel pelagianesimo. Infatti, per Agostino, la grazia è un dono che l’uomo può «attendere […], un dono che l’uomo non ha a sua disposizione come un bene che gli sarebbe comunque già sempre dato» (G. Madec, La patria e la via, p. 234). Anche i pelagiani moderni non rispettano l’accadere storico della grazia (e quindi non rispettano neppure la ragione e la libertà dell’uomo), ma snaturano il concetto di grazia in un dato in cui comunque, volente o nolente, l’uomo già si trova.
Solo se la grazia è un dono gratuito, la preghiera, nel suo aspetto di gratitudine e di domanda (supplex confessio), segna la vita cristiana quotidiana. Altrimenti presto o tardi diventa superflua: inevitabile e più evidente conseguenza di un atteggiamento pelagiano o neopelagiano. Ma ne va della salvezza: “Chi prega si salva”.
Con la grazia, gratuitamente riconosciuta e domandata, quel che è impossibile all’uomo diventa possibile. Come disse Gesù fissando lo sguardo sui suoi discepoli: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile» (Mt 19, 26). Con la grazia, il giogo di Gesù diventa dolce e leggero (cfr. Mt 11, 30). Ciò che è impossibile all’uomo spogliato e ferito, diventa leggero e dolce, facile (dice sant’Agostino e con lui tanti santi) alla libertà dell’uomo guarito e portato dall’attrattiva Gesù.
Si capisce, quindi, quale sia l’attualità e la posta in gioco implicata nei canoni di un antico concilio africano approvati dalla Sede apostolica di Roma.


I dogmi del Concilio di Cartagine
La vita cristiana senza l'attrattiva della grazia non è difficile, ma impossibile.

Canone 5. Così pure è piaciuto [ai vescovi stabilire] che chiunque dica che la grazia della giustificazione ci è data a questo fine, affinché mediante la grazia possiamo compiere più facilmente quanto ci è comandato di fare mediante il libero arbitrio, come a dire che, pure se la grazia non ci fosse data, potremmo compiere anche senza di essa, per quanto non facilmente, i comandamenti di Dio, sia scomunicato. Il Signore infatti, riferendosi proprio al frutto dei comandamenti, non disse: «Senza di me più difficilmente potete fare», ma disse: «Senza di me non potete far nulla» [Gv 15, 5].

Canone 6. Così pure è piaciuto [ai vescovi stabilire] che chiunque ritenga che quanto ha detto l’apostolo san Giovanni: «Se diciamo di non avere alcun peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» [1Gv 1, 8] vada inteso nel senso che per umiltà bisogna dire di aver peccato, ma non perché in realtà sia così, sia scomunicato. Infatti proseguendo l’apostolo aggiunge: «Se riconosciamo i nostri peccati, Egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa» [1Gv 1, 9]. Ne risulta chiaramente che non si tratta solo di umiltà, ma soprattutto di verità. Infatti l’apostolo poteva dire: «Se diciamo di non avere alcun peccato, esaltiamo noi stessi e l’umiltà non è in noi». Ma poiché dice: «Inganniamo noi stessi e la verità non è in noi», vuol dire chiaramente che colui che afferma di non avere alcun peccato, non dice il vero ma il falso.